Per una nuova fotografia sociale

La fotografia non è un semplice calco della realtà, è in primo luogo uno sguardo violento, ma non perché mostri violenze, ma perché in essa nulla si sottrae e tutto si rafforza. Con ingordigia onnivora la fotografia si nutre di passioni, di movimenti, di lacrime. Macchina che cattura i corpi e li fissa, attraverso un processo di emulsione, su un supporto pellicolare, la fotografia sembra condannare carne e muscoli ad un rigor mortis chimico. La foto si impone come credibile, convince, persuade, e spesso si fa forte della chiusura di senso operata dalle didascalie; la foto non ammette obiezioni, anche quando nasconde. Bisognerebbe cogliere invece le persone nel rapporto con se stesse, ovvero nel loro silenzio. Appena formata la pelle del reale cadrebbe in pellicola. Ma in tempi così sconfortanti non c è posto nemmeno per metafore barocche: oggi tutto finisce previa digitalizzazione nelle memorie rimuovibili per poi essere riversato nelle retine degli spettatori.

Un’ipotesi semplicistica? abbiate il coraggio di guardare l’espressione di un vostro qualunque contemporaneo, fissatelo negli occhi & che mancanza di vertigine nelle pupille dei sopravviventi.

La fotografia si degrada nello spettacolo della merce umana. Anzi, di più; mentre in questo paese disgraziato di calciatori nani e ballerine si discute ancora se la fotografia è un mestiere per scansafatiche o un’arte, inflazionata, riprodotta, masterizzata, annegata in un marasma di immagini, tecnologie userfriendly, fuoco amico di reporters embedded che in automatico non solo scattano, ma vivono, respirano, obbediscono, LA FOTOGRAFIA RISCHIA DI ANDARE A MORIRE. Più risoluzione, più risoluzione, unico imperativo di una società che ci fotografa in ogni tempo e in ogni luogo, con satelliti e cellulari, autovelox e sorveglianza. Foto segnaletica, scansionati dentro e fuori, esposti, a fuoco. Intanto sulla tolda del Titanic ballano direttori della fotografia, tecnici dell’immagine, sacerdoti dei fotofestival, maestri del mercato & tutti uniti per valorizzare il nulla fotografico, perché siano rispettate le regole del gioco, perché i vuoti di contenuto siano nascosti ad arte da prodotti fabbricati da una legione di specialisti che vedono così la possibilità di far restare in piedi la propria specializzazione. Intanto passione, sogno, illusione hanno perso la loro energia, il virtuale è il loro equivalente, sostituisce la realtà e sopprime il simbolico, nega il mondo corporeo sensibile, fantasticante. Nel tempo della guerra preventiva scompare anche la società dello spettacolo, il virtuale ingoia il reale sostituendolo, e il tempo storico, gli eventi della storia piombano nell’opacità, nell’incertezza, nell’assuefazione. Il tempo del virtuale è negazionista; quando si perde la distinzione tra reale ed illusorio tutto può essere truccato, guerre, corruzioni, processi, sondaggi & Epoca storica del Muro, dei muri che si moltiplicano la nostra. Muro presente in ciascuno di noi.

Quali che siano le circostanze in cui ci troviamo possiamo scegliere in noi stessi la parte di muro che ci è congeniale, non si tratta di un muro tra il bene ed il male, che esistono da una parte come dall altra. Si tratta di una scelta tra il rispetto di sé ed il caos dentro di sé. Tra un sollevamento della Coscienza e la narcotizzazione dei nostri sensi. Per una fotografia d’attacco, che percorra strade scomode ricominciando a guardarsi intorno, con sguardo nudo.

Gli ultimi dei Moicani, fotografi contro di Toscana, Veneto, Lazio. Giugno 2004

Info: stefanoulisse@libero.it

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