Un racconto di Natale

Il tacchino

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Un altro inedito di Daniele

Giustizia sommaria per un venditore di vernici

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Online due inediti di Daniele Boccardi

Vero o falso?

Se...

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Collana Eretica, Stampa Alternativa

Daniele Boccardi - VITE MINIME 
Scritti diseducativi

192 pagine, € 10
isbn 736-0



Io scrivo cose diseducative,
e non mi interesso mai di etica.



L’erede di Luciano Bianciardi?
Era nella stessa città, Grosseto. Ma hanno fatto finta di non accorgersene.
Carver italiano?
Era a Grosseto. Non lo hanno riconosciuto
e si sono accontentati di quello americano.
Era Daniele Boccardi, grossetano di nascita
e massetano di adozione.
Così vicino e così lontano.
Vicino a chi ha passioni, ribellioni, tensioni creative.
Lontano da chi legge, scrive o produce libri esangui.
A dieci anni dal suo suicidio, questa antologia di scritti da lui stesso definiti diseducativi vuole rendere tributo alla sua vita.

tratto dal libro

La mela bacata

– Si vede che fare la troia fa bene alla salute!
Clara, oltrepassato il giardinetto, stava per suonare alla porta mentre in salotto l’attendevano quattro mamme inviperite più mia zia. La zia, padrona di casa, era infuriata come tutte, ma raccomandava calma, calma e ancora calma.

Il commento velenoso, ma sagace, era stato suggerito dall’apparizione di Clara che in bicicletta pedalava con scioltezza nonostante la strada fosse discretamente in salita.
Metterle la lingua addosso non era difficile, era una donna eccessiva, eccessiva in tutto: capelli troppo neri, occhiali troppo grandi; la faccia, le labbra, i fianchi, il seno troppo grandi; troppo bassa, troppo grassa, troppo energica, troppo disinvolta e, per una donna della sua età, troppo in salute e troppo appetita dagli uomini.

Non so bene quali sentimenti animassero le mamme, ma ho forti dubbi che avrebbero avuto lo stesso atteggiamento se Clara fosse stata giovane e bella. Il loro astio stava tutto lì, nel fatto che cinque imberbi giovinotti avessero trascorso la notte in casa della suddetta signora, o meglio, nel suo letto. Beninteso, uno alla volta.

Il salotto era inizio anni sessanta, scimmiottava Chippendale ed il pezzo forte era il caffeause, così, zia, chiamava il mobile credenza carico di ninnoli e argenti. C’erano sei sedie dalla spalliera esagerata e un lungo, lucido tavolo ovale il cui piano era ornato di fregi.

La figura tracagnotta di Clara risaltava vistosamente, confinata sola soletta al centro del semicerchio grande del tavolo, mentre di fronte, bene allineate e vicine, sedevano le quattro mamme intanto che la zia, in piedi, faceva finta di essere indaffarata. Alle pareti quadri veri, ma senza nome.

C’era un po’ di imbarazzo, si deduceva dal cercare stizzoso non so che nelle borsette.
Fu Clara a rompere il ghiaccio, prima chiedendo il permesso di fumare, poi tirando fuori da una capace busta dell’Unità Sanitaria due fogli contenenti i risultati di una sfilza di analisi mediche comprendenti pure quelle delle feci, delle urine e dello striscio vaginale.

Allibite, ma curiose, le mamme gettarono lo sguardo sul responso medico e confortate dall’esito negativo ebbero sospiri di sollievo, eccome!

– Oh, noi non le abbiamo chiesto tanto, se per telefono ci preoccupavamo della salute dei nostri figli, c’è stato un qui pro quo, intendevamo salute morale. Lei ci deve comprendere, una donna della sua età... – C’era del viscido, sia nelle parole che nel tono.

– La mia età non è un optional, la offre la ditta con il tutto, prendere o lasciare.

L’ironia era così garbata e lieve che mosse l’accenno di un sorriso.

– Non c’è stato nulla di torbido, né shock per nessuno, tranquillizzatevi. Sono ragazzi in gamba, dei perni di ragazzi. Ci siamo fatti una carbonara, prosciutto e popone, bevuto coca-cola, fumato Chesterfield, queste – ed indicò il suo pacchetto – infine s’è fatto zun-zun. Ebbene sì, l’abbiamo fatto. Questo è tutto.

Per Clara l’incontro era finito, tant’è che ripose le analisi nella borsa e tirò fuori gli enormi Rayban leggermente fumé.

– È inutile menare il can per l’aia, mi domando cosa abbiano trovato in lei i nostri figli, che diamine, me lo domando proprio! E se ci fossero gli estremi di plagio?

Questa mamma parlò tutto d’un fiato, s’era levata il groppo dallo stomaco.

Clara si ricompose, accese un’altra sigaretta. Una mosca ronzava intorno al lampadario.

– I ragazzi son tutti maggiorenni, da poco, ma lo sono. Sono un gruppo affiatato, educati, istruiti, probabilmente hanno fatto una bravata con una donna disinibita; se per voi disinibita è un eufemismo, libere di pensare altrimenti. Mi piacciono i giovani, sto bene con loro, sarà che di testa non sono cresciuti molto, ma mi piace il loro modo di stare al mondo, hanno la prerogativa di non essere noiosi. Riempirei il Parlamento di ragazzi e... – fu interrotta con sfacciato sarcasmo: – Anche il letto a quanto pare.

– Sì, anche il letto perché, scusate se sono patetica, nel tumulto del loro cuore, nell’affanno del loro respiro ritrovo i miei vent’anni. – Questa volta non si fece togliere la parola di bocca e terminò con una certa nervosa allegria: – Ritrovo vent’anni solo per un attimo. Hanno una sovrabbondanza di energie, ma sono come i cetriolini selvatici, appena li tocco splash!

La zia aveva tirato le tende tanto per fare qualcosa e con l’autorità conferitale dall’essere la più anziana, ed anche la padrona di casa, disse con garbo, ma con fermezza:

– Manteniamo la calma e proseguiamo senza provocazioni.

– Oh questi nostri figli! Che passione! Non sanno levarsi ancora il moccico al naso e te li trovi in una storia come questa, eppoi non è finita qui. Ti ha raccontato tuo figlio delle lezioni sul sesso?

– Che faccia tosta Clara, che supponenza!

– Chi l’ha autorizzata?

– E l’istigazione alla masturbazione?

Sembrava che le parole della zia avessero prodotto l’effetto contrario.
Commenti, domande, esclamazioni accompagnate da gesti plateali si accavallavano come un fuoco di fila.

Clara pasticciò la sigaretta ancora da fumare dentro il posacenere, si strinse il labbro inferiore tra il pollice e l’indice per tre o quattro volte e quando il vocìo si chetò disse:

– Non capisco perché vi ostinate a buttare sul drammatico quello che è stato solo una commediola rosa, tanto per dirla col linguaggio da film, dove senza ipocrisie, né complicazioni, c’è stato un reciproco piacere. È questo che vi scandalizza? O il fatto che non ci siano gli estremi per una querela? Non sono salita in cattedra, non ho pontificato, non ho coerciso nessuno. I ragazzi, così intelligenti e astuti, non me lo avrebbero permesso. Non ho parlato solo io, abbiamo parlato, abbiamo discusso, abbiamo proprio parlato di sesso. Di cos’altro con me? Però lo abbiamo fatto in modo lieve, ognuno ha ritenuto l’argomento interessante ed ha esposto il proprio punto di vista.
Le mamme sembravano rassegnate, scuotevano la testa, si mordicchiavano le unghie; chi guardava sconsolata il soffitto, chi ripeteva – Oddio! Oddio!

– Vedi Clara, – la signora faceva un ammirevole sforzo per contenersi – noi non siamo prevenute, né vogliamo incaponirci a non capire, solo che non capiamo davvero. Se i nostri figli fossero venuti da te solo per fare quel servizio, e data la tua età già ci trovo qualcosa di perverso, avessero pagato la loro quota e, arrivederci e grazie, oggi non saremmo qui. Che si siano trattenuti tutta la notte, questo ci insospettisce e ci turba. O non ce la racconti giusta, e se così è, abbiamo motivo di preoccuparci, oppure, sia quello che sia, devi dircelo. Non puoi cavartela con una ‘toccata e fuga’ come vuoi farci credere e come vogliono farci credere i ragazzi. Tu fai il tuo mestiere, nulla da eccepire, ma per l’educazione, sessuale o no, ci sono altre istituzioni preposte e se ti sfuggono te ne rammento un paio: scuola e famiglia.

Era passata al tu non per confidenza, ma per incisività.

– Mio figlio? Mio figlio non si sarebbe mai azzardato a salire quelle scale, mai, mai. Non si sarebbe mai azzardato se non ci fossero state chissà quali lusinghe. Oddio! Oddio! Speriamo non si tratti di droga. – Si fece il segno della croce.

– E il mio? Figurarsi se avrebbe sfidato suo padre, tutti conoscono il caratterino di mio marito.

– Lo sento dalle parole di mio figlio che c’è un lato oscuro nella vicenda, non riesco a levargli di bocca più di tanto, è reticente, speriamo che la cosa meno brutta sia stata fare zun-zun. Zun-zun, come se si fosse trattato di suonare una chitarra, invece – qui la signora tirò una bordata micidiale – si trattava di suonare una vecchia ciabatta.

La zia arrossì come se la cattiveria fosse rivolta a lei, poi disse la sua: – Per la responsabilità di mio nipote ho ospitato questo incontro. Voglio sperare che a casa tua si sia trascorsa una nottata in sana allegria, e ne sono quasi convinta, altrimenti i ragazzi qualcosa si sarebbero lasciati sfuggire, perciò, se tutto sta qui, io direi di chiuderla con questa faccenda con una promessa da parte tua cara Clara – il cara non era beffardo – che ciò che è avvenuto non si ripeta. – Poi rivolta alle amiche: – A voi chiedo più stile e meno precipitazione – che equivaleva a “più educazione e più riflessione prima di aprire bocca”.

Le quattro mamme guardarono la zia con severità come a prendere le distanze e Clara capì che il processo doveva proseguire.

La solita mosca seguitava a ronzare intorno al lampadario.
Zia riaprì le tende e spalancò la finestra per cambiare l’aria densa di fumo.
Fuori, formazioni di rondini garrivano richiamando l’attenzione sulle loro evoluzioni.
Clara chiese per favore un bicchiere di acqua e la zia glielo portò cortesemente, poi la zia tirò di nuovo le tende lasciando le imposte socchiuse.

Gli stridi si attenuarono, il fumo guadagnò velocemente l’uscita.
Clara riaprì il discorso:
– Sono abituata, diciamo, alle asprezze verbali, per me questo è un copione già visto, solo che ero stata affrontata dalle mogli che mi incolpavano di adescare i loro mariti come fossero bambini scemi, non dalle mamme. Non adesco nessuno, il mio non è un mestiere, non ci sono tariffe e, per dirla papale papale, non faccio marchette. Invece di mestiere chiamiamolo hobby. Mi piace farlo e farlo con allegria e con uomini che mi piacciono, altrimenti niente. Deve essere un divertimento, capito? Non disdegno certo pensierini di riconoscenza, ma nel caso dei ragazzi non c’è stato nessun “segno tangente di riconoscimento”.

Parlava con pacatezza guardando negli occhi ora l’una, ora l’altra. – Avrei potuto non fare questo inciso, ma mi è sembrata una premessa chiarificatrice.
Si poteva interpretare così: sono maggiorenne e con i maggiorenni faccio quello che mi pare e piace. Dopotutto era o no una signora disinibita?

Poi riprese con il solito adagio:
– Non ho confessioni oscene da fare e neppure da libro giallo. Conosco i ragazzi da tempo, ma così, un ciao ciao e via, poi sabato scorso ebbi modo di parlarci al negozio di musica. Uno fa il commesso là...
– È mio figlio…
– Entrammo quasi insieme. Chiesero se era arrivato il disco del padreterno...
– Sì, sì, è un negro – sottolineò una mamma – sembra uno zingaro, un drogatello.
Se non era disprezzo gli somigliava molto.
– Il disco di chi? – chiese incuriosita, e loro, – di Bob Marley, c’è chi lo chiama il “Profeta”, per noi è il “Padreterno”.
– Mi parlarono del complessino che avevano messo su, di chitarre elettriche, di bassi, di amplificatori, di musica insomma e, parlando parlando abbiamo salito quelle scale e ascoltato i brani che loro avevano scritto. La musica mi è sembrata molto suggestiva, le parole un po’ lugubri. Mentre preparavano qualcosa da mangiare io sorbivo la mia porzione di droga giornaliera: caffè corretto con Stock. – Povere donne, per un attimo avevano rischiato l’infarto. – Quindi siamo passati al sesso, quello parlato, e qui, scusate l’immodestia, credo di avere le carte in regola, ho una lunga esperienza ed una specializzazione per le quali avrei diritto alla laurea ad honorem. –

Clara si accorse che i volti erano meno tirati, gli sguardi meno feroci.
Attese per concedere la parola, ma nessuna intervenne, così andò avanti:
– I ragazzi cominciarono a prendere confidenza, s’erano fatti intraprendenti, non spavaldi, e tra battute più o meno originali il discorso si orientò sulla masturbazione. A onor del vero, non li istigai, forse li esortai con compiacimento a questa lodevolissima pratica. Cominciarono a mettere dei punti fermi: la masturbazione non è nociva, fa bene alla salute, scarica la tensione, rende sereni, ci fa conoscere intimamente, stimola la fantasia e... e chi più ne ha più ne metta. All’equazione “L’uso sviluppa l’organo” si rimbeccavano con amene estrosità tipo: “a lui il pipino è rimasto breve, in compenso gli è venuto il braccio del tennista”, “zitto tu che sei diventato mancino perché hai sempre la destra occupata con l’attrezzo” e così via con una strullata dopo l’altra. Io ci misi del mio, prima per raccontare un fattarello vero, poi suggerendo qualche accorgimento tecnico per migliorare la resa del piacere solitario. È vero, l’ho fatto con un po’ di malizia, ma penso che un giorno tornerà loro utile.

I gesti delle mamme, anche quelli più banali come accavallare le gambe, accendere la sigaretta, bere un po’ d’acqua, erano ora meno legnosi. Non respiravano più dalle nari arricciate e i sospiri lievi erano di sollievo.
– Prima di proseguire vuoi raccontare il fattarello anche a noi?
Il tono della voce era così gentile che fu impossibile declinare la richiesta.
– Oh, sì, niente di speciale. Successe un po’ di tempo fa, quando avevo meno anni e più grazie. Un signore molto distinto venne a trovarmi, la cosa si ripeté per quattro, cinque volte. Mi faceva indossare slip e reggiseno rossi o slip e reggiseno neri, “rossi come il fuoco, neri come il peccato”, diceva lui, e si masturbava guardandomi. Non mi piacciono le perversioni, neppure quelle innocenti, nascondono sempre qualche cosa di torbido. Gli chiesi spiegazioni. Mi raccontò che quando era ragazzo abitava in un condominio e dalla finestra del bagno vedeva una signora che stendeva il bucato mettendo nella prima fila dello stenditoio questi indumenti intimi. Il fatto si ripeteva due, tre volte la settimana, e quando lui poteva spiare la signora, era preso da un irresistibile impulso: doveva ad ogni costo masturbarsi. La madre sapeva o sospettava fortemente; presa chissà da quali fobie, gli bussava alla porta e con suadente ipocrisia gli chiedeva se stava bene, se aveva bisogno di nulla, se aveva mal di pancia o altro. In quel momento, lui, avrebbe strozzato volentieri la madre, ma era costretto a rispondere con voce roca: “sono stitico”. Poi, per dar credito a questa versione, doveva ingoiarsi pozioni di magnese e falqui.

Nessuna voleva ridere per prima, poi scoppiarono a ridere tutte insieme rumorosamente e spropositatamente, ne avevano bisogno. Le mamme si sentivano in debito per aver attaccato troppo rudemente Clara, e Clara per averle trattate con troppa sufficienza.
Il tintinnio dei cucchiaini dentro le tazze annunciò la zia con il vassoio del tè e fu l’occasione buona per fare un po’ di spazio tra le sedie, così Clara non fu più sola al grande semicerchio del tavolo.
Il sole calato da poco dietro i poggi ne scandiva nitidamente i profili ed il cielo giallo era bellissimo anche senza i rossi riverberi del tramonto.
– Come finì? – concluse Clara tra un sorso e l’altro – Finì che gli dissi di non tornare più. Non ero il suo dottore e non volevo essere assolutamente la sua medicina.
Ad ogni sorsata si asciugava le labbra e il rossetto chiassoso rimasto sul tovagliolino tolse alla sua bocca quel che di sfacciato.
Le rondini avevano intensificato i loro passaggi con il chiaro intento di disturbare la riunione e la zia chiuse del tutto le finestre.
Dentro la stanza era rimasto il profumo delle acacie a lottare con il fumo per la supremazia.
– Eh, sono buffi questi uomini!
– A chi lo dici!
– Figuratevi io, ho tre maschi in casa!
– Su dài, raccontacene un’altra.
– Chissà quante te ne sono capitate, vero Clara?
Parlava una e di rimando, a conforto, le altre. Tutte sembravano dimentiche dell’assillo che le aveva condotte lì.
– Oh se me ne sono capitate! E di cotte e di crude, ma storie vere e proprie no, anche perché non voglio coinvolgimenti di sorta, legami, impegni... Chiamiamoli episodi. Eccone un altro, tanto per rimanere in tema.
La zia stava in piedi accanto a lei con atteggiamento premuroso e con lo sguardo e i gesti più che con le parole, chiedeva se aveva bisogno di qualcosa.
Clara la ricompensò con un dolce sorriso:
– Un giorno, sotto casa, mi aspettava un giovane sui trent’anni. L’avevo notato da lontano, non aveva fermezza, sembrava davanti alla porta della salaparto invece che a quella di casa mia, mi farfugliò un saluto e poi, dopo aver mosso le labbra diverse volte senza dire niente, se ne uscì con un balbettante “devo fare l’amore con te”. Le richieste così a bruciapelo mi infastidiscono e rispondo da par mio, ma nei suoi occhi c’era un gran candore e tanta implorazione, e nei suoi modi un grande impaccio che lo invitai a salire. Ritrovò la calma dopo un bicchiere d’acqua.
A proposito di acqua anche la zia ne portò una caraffa; sembrava che tutte avessero da spegnere una gran sete.
– Aveva una fidanzata a circa cento chilometri, e per la distanza, e per lavoro, riusciva ad incontrarla due o tre volte al mese, non di più. Facevano l’amore! avevano a disposizione tutto l’appartamento e tutto il tempo necessario, però lui soffriva di eiaculazione precoce. La ragazza pensando a sovraeccitazione cercò in mille maniere di predisporlo nella migliore condizione d’animo, ma i tentativi non portarono a nulla. Temendo qualcosa di patologico lo invitò a recarsi dal medico. La visita accurata escluse difetti organici e, con una pacca sulle spalle, il dottore lo licenziò. Per quel giovane ero l’ultima spiaggia, la prova del nove, o la va o la spacca, se falliva avrebbe rotto il fidanzamento. Ma era troppo determinato, troppo consapevole di non farcela e difatti “l’operazione” fallì dopo appena un minuto.
Scese dal letto agitato da far paura, cominciò a singhiozzare, a chiedermi di aiutarlo in qualche modo. Ero imbarazzata, non sapevo che fare né che dire. Avrei potuto aprirgli la porta con un “vattene!”. Ognuno ha le sue pene, non sono tenuta a farmene carico, però qui era in ballo la mia reputazione, il mio orgoglio. Si trattava di sesso o no? Ho la pretesa di essere un’esperta?
Era ironica. Rimase muta per qualche secondo. Tutte annuirono serie. Clara sembrava più proporzionata, forse era la luce del lampadario che le schiariva i capelli con riflessi rosa.
Nel parlare esponeva discorsi troppo macchinosi, non era da lei, ma per rispetto alla casa e alla zia aveva abbandonato quel suo dire diretto e colorito. Comunque non era una donna sboccata nonostante il suo “hobby”.
– Ci sono momenti in cui il silenzio dura troppo a lungo per cui ogni cosa detta sembra un ripiego, una scusa per togliersi l’impiccio, meglio allora dare il via alla bocca e sparare la prima frescata che ti passa per il capo, così gli chiesi a bruciapelo: “Ti fai mai le pippe?”. Mi rispose di sì, specialmente i sabati che non poteva andare da lei. Eh no, ragazzo mio, devi menartelo più spesso, tutti i giorni, capito? Lavorare di mano, lavorare, lavorare, credi che Mennea si alleni tre, quattro volte al mese? Menarselo di santa ragione, capito? Capì, perché annuiva come avesse il ballo di sanvito alla testa, tuttavia obiettava debolmente parlando di lavoro, di salute, di stanchezza, ma lo ghiacciai subito. O la ragazza o il resto. Stammi a sentire, aggiunsi, dacci dentro e mentre che lo fai prova a cantare una canzone, anche mentalmente, e controlla a quale strofa sei arrivato al momento dello spruzzo. Vai avanti così sforzandoti di cantare ogni volta una strofa in più. Tutti i giorni, capito? Ed ora fuori! Per un po’ di tempo la cosa mi rimase in testa, era la prima volta che consigliavo simili terapie, poi passò. Trascorso circa un anno ricevetti una partecipazione di nozze che invece della solita bomboniera conteneva un disco di inni sacri. Era lui che si sposava. Sull’invito la futura sposina aveva scritto a mano queste righe: ‘Grazie a lei ora siamo felici, riusciamo a cantare non solo un brano, ma tutto il disco, anche più volte’.
La zia, donna di fede, prima di congratularsi con Clara, ebbe un pensiero riverente:
– Un inno sacro? È il colmo!
– Una sfacciataggine inaudita.
– Di più, di più, addirittura blasfemi.
– Suppongo un errore nella confezione, uno scambio di dischi...
– Oppure uno scherzo di cattivo gusto. Non si tratta di confondere il sacro col profano, qui si bestemmia.
Clara riprese la parola: – Mi associo alla vostra indignazione, anche a me sembrò uno strano biglietto, ma non volli approfondire, non andai alle nozze, sarebbe stato, come dici tu, mischiare il diavolo con l’acqua santa.
– Hai più saputo nulla?
– Sì e no. So che sono fedeli praticanti e che venerano in modo particolare il santo nella cappella del Duomo vicino al coro. Alla fin fine io sono soddisfatta, quel “siamo felici” in cima all’invito mi ripaga abbondantemente e poi, quel giovane ha ritrovato l’autostima che s’era buttato sotto ai piedi quando era venuto da me.
– Venuto da te e con te.
La risata generale consacrò definitivamente la nascita dell’armonia.
La zia propose come aperitivo il suo nocino leggero leggero dopodiché invitò tutte a visitare la casa e ad approfittare del bagno. Ognuna aveva da complimentarsi con le altre per il tailleur, per la camicetta, per il taglio dei capelli e... era tutto un chiacchiericcio.
I lampioni a vapori di mercurio accesi lungo il vialone della periferia davano con la loro luce viola un tocco di languida malinconia alla sera adagiata nel silenzio.
– Questi ragazzi diventano grandi!
– Proprio! crescono a vista d’occhio e noi non ce ne accorgiamo nemmeno.
– Si fanno uomini, devono farsi le loro brave esperienze.
– L’omo è omo – sancì, in maremmano, una di loro.
– Hanno le loro necessità ed è stato meglio così – ammiccando a Clara – che con una di quelle strullarelle, tanto son poco birbe le ragazze oggi!
– A mettere di mezzo un bravo giovane, dopo aver giostrato in lungo e in largo, ci mettono quanto a sputare in terra.
– Noi, Clara, s’era partite un po’ sparate, tu capisci, core de mamma.
– Capisco, capisco. Anche io ho agito con superficialità. Capite anche me, io non sono mamma.
Si muovevano avanti e indietro, come in un minuetto giostravano intorno al tavolo con dialoghi pieni di oh! ah! Si capiva che l’incontro non poteva finire così, però nessuno prendeva l’iniziativa di sedersi.
Infine Clara – Vedete come si fa presto a fare tardi – mimò la battuta.
Fuori il viola inondava strade e giardini. Clara sembrava interessata a quello che succedeva al di là della finestra perché era in piedi con la faccia quasi appiccicata al vetro, ma, strano a dirsi, era solo per nascondere l’imbarazzo nel tirare le conclusioni.
– I ragazzi stesero il decalogo della pippa – proseguì senza voltarsi e con un bel tono di voce greve e sentenzioso – la masturbazione è necessaria, ha una funzione psicoterapeutica e perché questa funzione sia efficace abbisogna di una precondizione, che l’atto venga eseguito senza con-di-zio-na-men-ti.
L’enfasi esagerata, la declinazione stentorea, il piglio torvo suscitarono un piccolo applauso di consenso. Clara si volse, ridimensionò il tono mantenendolo vigoroso: – Qui suggerii un po’ di tecnica. Quando “lui” comincia a scalpitare dentro lo slip e si agita come un puledrino focoso, non strapazzatelo con violenza, non zittitelo con due botte come si fa con un ragazzino bizzoso, ma dategli corda, domate la sua irruenza con dolcezza, prolungate le carezze.
La voce di Clara si fece suadente: – A volte l’eccitazione è tanta che è bello scaricare tutta la corrente in cento metri, ma allenatevi per gli ottocento.
– Che simpatiche queste similitudini, mi ricordano Omero. Seppur cordiale questa osservazione di mamma fu zittita da occhiate che di cordiale non avevano nulla.
– Poi tornai sulla canzonetta da prolungare strofa dopo strofa, capirete, mi era risultata buona in molte occasioni! Infine, – era tornata a voltarsi verso la finestra – a parlare di queste cose loro si erano caricati, io ero disponibile e... e non ho mai fatto tante docce tutte insieme in vita mia. – Abbassò la testa e gli occhi.
Il ticchettio della sveglia che zia teneva in cucina giungeva nitido e preciso, anzi, col passare dei secondi, si faceva più forte, come una marcia in avvicinamento.
La zia aveva le sue massime e tra le altre questa: – Quando si sente lo scandire del tempo non si sta neppure oziando, c’è il vuoto.
Colse al volo questo momento di apnea, si avvicinò a Clara, le mise una mano sulla spalla. Clara si voltò lentamente e la zia l’abbracciò.
Il gesto della zia non era necessario e non fu imitato. Lei era capace di simili slanci, aveva le lacrime in tasca. Finse di soffiarsi il naso, aveva gli occhi lustri, prese Clara sottobraccio e, tutta impettita come avesse tra le mani un trofeo, orgogliosamente se la trascinò in cucina. Il loro parlottare si confuse con il brusio in salotto, poi dopo pochi istanti tornarono di là. Zia aveva un sorriso radioso.
– Finalmente!
Clara si schermì stringendosi nelle spalle, la tensione era scemata a livello zero, il tavolo sembrava rimpicciolito così fiorito di bicchieri, tazzine, bottiglie, tovagliolini, sigarette, accendini, mentine. Tutte avevano sacrificato un po’ di savoir faire e stavano spaparanzate sulle sedie.
La zia, scusandosi, confessò di aver chiesto un consiglio a Clara – Nulla di particolarmente segreto – tenne a sottolineare; ma aveva ridato il là alla conversazione e indicato l’argomento. Ognuna aveva una cugina al sud, un’amica al nord, una lontana parente da incontrare prima dell’apertura delle scuole o al massimo a Natale e, guarda un po’, tutte queste amiche o parenti avevano problemi più o meno grandi con il marito, perché, sì, erano tutte sposate, felicemente sposate ma... avevano bisogno, con discrezione, di un aiuto, di un suggerimento.
Clara si era messa leggermente in disparte per osservare e ascoltare le donne; loro si punzecchiavano con folclore e uscite estemporanee, ma tra il serio e il faceto vennero fuori problemi veri. La zia, che quatta quatta era tornata in cucina, apparve sull’uscio di sala alla terza telefonata e con sarcasmo esclamò: – Quanto amore questi uomini all’ora di cena! – poi confabulò un po’ con le amiche.
– Senti Clara, è ora di cena, se stesse a noi rimarremmo qui tutta la notte ma la famiglia ha le sue esigenze e tu le tue. Vorremmo incontrarti di nuovo per vedere se insieme riusciamo a dare una mano alle nostre amiche, alle nostre parenti e ci piacerebbe farlo presto.
– Con piacere, a me va bene mercoledì o giovedì sera, a voi?
Si guardarono, niente in contrario.
– D’accordo.
– Dove?
– Qui da me – disse la zia che aveva cominciato a sparecchiare – sono sola e anche lontana da malelingue. Va bene?
– Va bene.
Clara era già pronta, si era messa la borsa a tracolla, stringeva le mani a tutte. Prima di uscire volle ricordare. – Sapete come la penso, non sono una maga né una fattucchiera, non ho elisir né amuleti né posso garantire che col mio modesto contributo si possano risolvere i problemi, ma di certo c’è questo: il busillis è tutto lì, tutto lì – e con un gesto poco elegante, ma eloquente, indicò con l’indice un posto sito poco sotto il petto prosperoso – datemi retta, è lì – alzò il tono della voce senza insolenza – lì! tra le gambe degli uomini e delle donne!
Per un attimo, nell’atrio, rimase di lei una stilla di profumo sopraffatto dalle acacie e rosmarino. Clara inforcò la bici e svanì in un mondo viola.