Il
tacchino
Cari ragazzi, per raccontarvi
questa storia bisogna che inizi da lontano, anche se il prologo
è di contorno. Da lontano? Beh, tutto è relativo.
Comincerei dai nonni di Miezzeca. Il nonno era sardo e, quando
fu mandato a Napoli per il servizio militare, conobbe una
ragazza senza nessuno e la sposò. I due, poi, si trasferirono
a Matera ed ebbero diversi figli, tra questi la mamma di Miezzeca
che, fin da bambina, fu spedita a Bari a fare la serva presso
una famiglia facoltosa, ma di una tirchiaggine inaudita. Purtroppo,
la ragazza, analfabeta e un po' tontacchiola, cominciò,
fin dall'età di quindici anni, a sfornare un figlio
dopo l'altro.
Miezzeca, su interessamento del parroco, fu affidato ad un
orfanotrofio che accoglieva anche trovatelli e bambini di
famiglie sciagurate.
Il ragazzo, finché rimase in Istituto, non imparò
né a leggere né a scrivere e neppure a conoscere
i soldi; in compenso imparò a pulire alla perfezione
refettori, androni, cortili, scale, piazzali, latrine. Padre,
sconosciuto.
I nonni di Diletta avevano una storia parallela a quelli di
Miezzeca; uno veniva dall'Abruzzo, l'altra dal Molise e il
perché finirono a Reggio Calabria non si sa, si sa
solo che misero al mondo una caterva di figlioli, che la madre
di Diletta morì di parto e che tutte le notizie di
questa discendenza finiscono qui, senza sapere nemmeno in
quale cimitero si trovino le loro tombe.
Diletta viveva nel brefotrofio siciliano sin da quando era
in fasce, e la sua data di nascita sconosciuta.
Le rare visite, non più di tre o quattro in una ventina
d'anni che i due giovani ricevettero nei rispettivi istituti
da sedicenti parenti, confermano che, tra questi, quelli che
se la passavano meglio vivevano in miseria.
Certe storie, che collimano come ripassate con la carta carbone,
fan pensare ad uno scherzo del destino. Scherzo del destino!
Che cos'è? Qualcosa che va oltre il curioso? Qualcosa
di eccentrico, di bizzarro, di inusuale? Comunque viene in
mente qualcosa di raro e di negativo.
Vincere la lotteria nazionale non è uno scherzo del
destino. Altro che scherzo!
Tempo fa lessi sul giornale (e lo disse anche la tivvù),
che ad un tale fu lasciato nello stomaco, durante una operazione
chirurgica, un batuffolo di cotone. Fatto deprecabile, ma
non così unico e straordinario. Il poveretto, accusando
malesseri, fu rioperato per la rimozione del corpo estraneo
e, incredibile ma vero, gli fu lasciato in pancia un bisturi.
"Scherzo del destino" commentarono i mass media.
Allora, quando un fatto di per sé solo curioso, ma
negativo, si ripete, vien detto scherzo del destino; e se
si ripete, e si ripete sempre allo stesso modo, con accanimento,
su più persone, su tante, su una moltitudine ed anche
quotidianamente, come si chiama? Di chi la colpa? E di questi
ragazzi che sono negli orfanotrofi, nei brefotrofi, in tutti
gli altri "ofi" con un destino che li racchiude
come un recinto un gregge, e omologa gli uni agli altri, che
vuol dire? Che sono obbiettivi di uno scherzo perverso? Di
una beffa atroce? Mah, forse è colpa del dna!
Basta, basta, non voglio impelagarmi in simili discorsi: in
fin dei conti questa è una storia per ragazzi.
Alcuni Istituti dell'Isola avevano concordato programmi similari
e definiti. Tra questi faceva spicco il raduno annuale che
si teneva nella Valle dei Templi ad Agrigento per festeggiare
gli "anziani", cioè i ragazzi che lasciavano
gli Ospizi per raggiunti limiti di età. Limite fissato
a diciotto anni, ma, in deroga ad una legge a completa discrezione
dei Rettori, gli "ospiti" potevano rimanere sino
a vent'anni; così andava a finire quasi sempre.
Il raduno era veramente un'occasione per far succedere cose
grosse; si combinavano matrimoni, si davano posti di lavoro
e si sceglievano, a seconda delle necessità, gli individui
più adatti. Tutto questo affarìo era ben orchestrato
e condotto in porto dai direttori.
Il pranzo, decente, veniva offerto dai benefattori, cinque
o sei e quasi sempre i soliti che, a fine pasto, concludevano
le trattative e staccavano l'assegno. Questi sapevano che
i ragazzi scelti erano "doc", sicuri sotto ogni
aspetto, perché quelli dimostratisi difficili avevano
da tempo preso la strada delle Case di correzione e dei Riformatori
che, oggi, cancellati i famigerati nomi dalle facciate, si
chiamano Case di accoglienza.
Miezzeca e Diletta, sotto il profilo della garanzia, erano
il meglio del meglio: ammansiti a dovere, ammaestrati diligentemente
al lavoro, addestrati alla sottomissione e all'obbedienza
e, cosa ritenuta dai benefattori una virtù, non erano
proprio una gran bellezza.
Miezzeca fu sciupato al momento della nascita ed aveva al
labbro superiore una profonda cicatrice che, se teneva la
bocca chiusa, si tramutava in una brutta smorfia, se teneva
la bocca lente scopriva i denti dalla parte sinistra come
un ghigno. Però era forte, basso e tarchiato e con
una selva riccia in testa.
Diletta non era male, solo che rideva sempre, ridacchiava
di un nonnulla con un riso stoltarello che dava un po' fastidio
e veniva presto a noia; poi, forse a causa di una caduta da
piccola, le era stato ingessato male il braccio destro ed
ora l'arto, anche se disteso, rimaneva sensibilmente curvo
e girato verso l'interno.
I due ragazzi, forti di un pedigree di tutto rispetto stilato
dagli educatori in anni di insegnamento e vigilanza, furono
i primi ad essere accaparrati ed il benefattore, che aveva
preso in appalto da un subappaltatore il servizio di pulizie
in uno stabilimento di Gela, fu estremamente soddisfatto e,
di più ancora, per la promessa che i due giovani si
sarebbero sposati entro l'anno.
Difatti, matrimonio a Natale e viaggio di nozze a Gela per
sistemare poche cose in due stanzette semiammobiliate, camera
e cucina, e prendere visione del lavoro.
I due si spaventarono quando si resero conto che tutta la
squadra delle pulizie erano solo loro, che le stanze da pulire
erano una miriade, che il piazzale somigliava tanto ad un
campo sportivo.
Inizio anno, inizio lavori. Nessuno parlò di paga.
L'angoscia più grande però non riguardava il
lavoro, ma la loro unione. L'ansia di ritrovarsi a sera insieme
dava loro una grande esaltazione: si scambiavano attenzioni
ed effusioni ed avevano una gran premura di non offendersi,
ma non riuscivano a consumare materialmente il matrimonio.
Frettolosamente, a suo tempo, il Parroco dell'Orfanotrofio
ebbe a dire a Miezzeca: "Il matrimonio è un passo
importante nella vita, va affrontato e sostenuto con impegno
ed onestà e - si sbilanciò - va consumato con
cautela. Quando il desiderio dei sensi ti prenderà
affidati alla Divina Provvidenza. Capito, figliolo?".
Miezzeca fece cenno di sì, ma aveva capito solo Divina
Provvidenza. Anche il prete si rese conto di avere "gettato
i suoi poveri versi al vento", ma, detto quanto la prammatica
imponeva, si sentì sollevato e passò la palla
al dottore:
"Procurati un vasetto di vasellina e non fare la bestia.
Ciao".
A Diletta ci pensò la cuoca:
"Andate a letto, spegnete il lume e mischiate il vostro
sudiciume".
Miezzeca piangeva, Diletta piangeva ed aveva paura.
Fu l'infermiera dello stabilimento, una ragazza palermitana
alla quale si erano rivolti per il libretto sanitario che,
o per caso e perché presaga dei tormenti della "squadra
delle pulizie", volle intavolare con i giovani sposi
un dialogo fruttuoso.
"Cara Diletta, quando senti uno strano prurito che ti
fa stringere le gambe e quando l'aria che respiri ti passa
per la gola come se tu avessi in bocca una caramella di menta,
è vero che in quei momento hai voglia di Miezzeca?
Lo vorresti vicino vicino per abbracciarlo forte forte e baciarlo
tanto, è vero?".
Diletta avvampò, abbassò la testa: "Sì".
"E tu?" rivolta a lui " Ti prende il desiderio
di Diletta? Senti che vorresti soffocarla di baci? Mangiare,
la vorresti, è vero?".
"Sì, è vero".
"In quei momenti il tuo pisellotto diventa duro?".
Miezzeca era un tizzo di fuoco. Una donna che parla così...
Gli ronzavano le orecchie e la testa riccia era una spugna
di sudore.
"Sì o no?" lo incalzò la ragazza.
"Sì".
"Oh, bene! Tutto a posto, non ci sono problemi. Allora,
che fate in quei momenti? Che fai tu?".
Miezzeca ripeté le parole del parroco.
"Eh no, caro mio, tu non devi invocare la Divina Provvidenza,
devi invocare Diletta, la devi chiamare a gran voce, portarla
in camera e fare l'amore. Siete giovani, sani, robusti e vogliosi,
avete tutto quello che ci vuole per far bene all'amore; abbandonatevi
ai vostri istinti e godetevi quello che di più bello
la natura ci ha dato".
I due non avevano la forza di riflettere e risposero come
sotto la spinta di un comando, sovrapponendo le voci: "È
peccato, sì, è peccato, peccato mortale. Dobbiamo
essere più forti delle tentazioni, Satana è
più vicino della camicia".
"No, non è peccato. Peccato è non farlo,
perché si va contro natura. Insomma, come risolvete
quando siete eccitati?".
"Lui mette la testa sotto l'acqua fresca, a me basta
passarci i polsi".
La ragazza capì che doveva riorganizzare il discorso
e prenderlo più alla larga, doveva sforzarsi per far
breccia nella testa degli sposini, era lì che le cose
non funzionavano.
"Quando vi scappa la pipì, la fate, giusto? E
così quando vi scappa la cacca. Sono necessità
naturali, eppure di fare la cacca ne faremo volentieri a meno,
soltanto per la puzza. E la pipì? Quanto sarà
fastidiosa! Ti scappa sempre nei momenti meno propizi, in
autobus, dal dottore, insomma proprio quando non dovrebbe.
Un po' si regge, poi dobbiamo andare al gabinetto o ce la
facciamo addosso. E mangiare? Quando abbiamo fame che si fa?
Si mangia, se abbiamo qualcosa da mettere sotto i denti. Dunque,
cerchiamo di soddisfare le nostre necessità, altrimenti
stiamo male. Se non lo facessimo avremmo forti dolori alla
vescica, alla pancia, allo stomaco e con conseguenze disastrose.
Chi è impossibilitato a fare queste cose naturali,
perché impedito da una malattia, va dal dottore, giusto?".
Avevano capito.
"E se una persona dal fisico sano si rifiuta di andare
al gabinetto, rifiuta il cibo, noi che diremmo di lei? Diremmo
che è tutta scema, se non addirittura matta. Noi abbiamo
due mani, due occhi, due gambe, insomma tutti gli arti e gli
attributi dei quali ci ha fornito madre natura; la ringraziamo
per questo e con essi facciamo quello per cui sono stati creati:
lavorare, guardare, camminare, udire, parlare, eccetera eccetera.
E se una persona decidesse di tapparsi un occhio, tanto ne
ha due, o di legarsi una mano dietro la schiena e adoperarne
una sola, o di non parlare perché le basta indicare
o scrivere ciò che vuole, cosa diremmo di lei? Che
è matta, ma tanto matta, matta da ricovero, giusto?
Una persona che rifiuta i doni bellissimi e preziosissimi
della natura può essere solo matta.
Sapete, c'è gente, che pure istruita ed intelligente,
mortifica questi doni, per esempio non facendo all'amore,
non adoperando quegli attributi che la natura le ha dato proprio
per fare all'amore. Questa non vi sembra un'aberrante perversione?
Ed insegnare, istigare, costringere con i mezzi più
meschini il prossimo a questa astinenza, è perfidia
bella e buona, che merita la galera più del manicomio.
Ecco, se non volete subire conseguenze negative, godete di
ciò che la natura vi ha dato siatele riconoscenti adoperando
tutto ciò che essa vi ha fornito. Sarebbe un peccato,
un peccato imperdonabile il rifiuto. Pensateci su".
Ci pensarono. Ebbero con la ragazza altri colloqui, più
che altro sul metodo, ma ormai era stato aperto un varco nella
loro testa e la luce cominciava ad entrare con dolce prepotenza.
Dal piazzale veniva su una polverina gialla
che pizzicava come pepe, dai pini veniva giù una polverina
biancastra scivolosa come sapone, dalle ciminiere calava una
polverina nera appiccicosa come colla, il sole bruciava gli
occhi, il vento seccava la gola. Diletta era incinta e passò
alle pulizie interne, Miezzeca si ammazzava di fatica. Soldi,
niente. Non sapevano come era fatta, né avevano mai
sentito parlare di busta paga; sapevano che tutto quello che
avrebbero dovuto riscuotere andava per il vitto, l'alloggio
e contributi fiscali. Solo a volte, a mò di mancia,
ricevevano qualche lira. Mangiavano alla mensa, dopo il turno
degli operai, ed era la solita roba giorno e sera.
In parecchi glielo avevano detto che non ce l'avrebbero fatta
a sostenere quei ritmi e che ogni anno arrivava una nuova
coppia per le pulizie. Grazie all'infermiera di Palermo, ebbero
il trasferimento alla sede centrale di Catania e, se pure
lì c'era "l'osso da rodere" fu sempre meglio
che a Gela.
Miezzeca puliva tutti gli uffici della sede, lavava le macchine,
andava a prendere i bambini a scuola, portava a pisciare il
cocker, andava a prendere le colazioni e, più faceva,
più gli chiedevano di fare.
Era stato assunto come manovale, peccato che la sua paga venisse
divisa per tre: un terzo lo tratteneva l'azienda, e non si
sa perché, un terzo il benefattore, e non si sa perché,
un terzo rimaneva a lui ma doveva tassativamente fare la spesa
da certi bottegai dei quali gli era stata data la lista.
Diletta non era stata assunta, ma lavorava a tempo pieno e
nessuno si faceva scrupoli del suo pancione. Faceva la serva
alla moglie dell'amministratore delegato, alla moglie del
direttore, a quelle del vicedirettore, del segretario, del
responsabile dell'ufficio acquisti e... povera donna, sgobbava
più d'un facchino. Comunque, con quelle due lire che
gli rimanevano, la coppietta si barcamenava alla meglio e,
se anche arrivavano a malapena a fine mese, erano ricompensati
da una commovente armonia che aumentava nel tempo.
Aumentava anche la famiglia, ora avevano cinque figli e tirare
avanti era sempre più dura e dura era anche buttar
giù la "pietà" di certe signore, alle
quali non potevano dire di no, che, con fare caritatevole,
li riempivano di scarpe smesse, di stracci fuori moda, di
pacchi di pasta scaduta. Era questo che sapeva troppo di sale.
Miezzeca cercava con ostinazione un lavoro altrove. S'era
fatto uomo, teneva il sigaro in bocca così che la smorfia
veniva attenuata, leggicchiava quasi tutto e, con tutto il
"daffare" che gli era piovuto addosso in quei cinque
anni e a Catania, se la cavava come muratore idraulico, ciabattino,
barbiere, elettricista. Era un "cento mestieri".
Diletta da tempo non ridacchiava più; il suo, forse,
era un tic e un giorno sparì.
"A Milano! A Milano! Ho trovato un posto
a Milano".
Agitato come un tarantolato Miezzeca schizzò da Diletta
come un razzo. "A Milano!A Milano!".
L'euforia non lo fece mangiare né dormire per diversi
giorni e la moglie pensò che fosse andato fuori di
testa, ma, proprio quando anche a lui cominciarono a sorgere
dei dubbi, si presentò a casa un impiegato dell'azienda
che, tra mille raccomandazioni di non fare mai il suo nome,
gli diede numero telefonico ed indirizzo di Milano. Lunedì
si dettero malati e telefonarono. Martedì, appena giorno,
consegnarono le chiavi.
"Ecco le chiavi". Disse Diletta senza voce. Miezzeca
non dimenticò quell'attimo. Diletta era il ritratto
della rassegnazione e lui fu toccato profondamente dalla penetrante
mestizia della moglie.
"Passerottino mio, pulcino d'oro, dolcezza infinita,
non piangere, ti prego, non piangere; questa terra velenosa
non merita le tue lacrime" e con il palmo della mano
le asciugò le guance.
"Non piango, non piango più. Non lo so perché
piango, m'è venuto così, stai tranquillo, non
piango più".
Erano andati via di buon mattino, sommessamente, ma non era
una fuga, semmai pudore per celare il loro sgombro tutto in
un bauletto e una valigia. Non avevano rimpianti e non ne
lasciavano.
L'Orfanotrofio avrebbe fornito non due, ma dieci, cento lavoranti.
Che lasciavano? Niente, nemmeno debiti perché nessuno
aveva mai fatto loro credito.
Miezzeca non amava la Sicilia, i suoi più lontani ricordi
si perdevano in un'infanzia fatta di silenzi, di sapori di
muffa e di polvere, di camerate buie, di ordini, di novene,
di sensi di colpa e di troppi sguardi a capo chino.
"Senza te sono un pupo senza fili" sussurrò
Diletta, poi, vinta dalla stanchezza e dal tran-tran delle
rotaie, appoggiò la testa alla spalla del marito e
si addormentò.
I figli, pigiati l'uno all'altro come cinque piselli in un
baccello, avevano lo stesso sguardo meravigliato.
Miezzeca pensava a Milano. Portinaio in un condominio! Quanti
saranno? Tanti, tanti; lassù fanno le cose in grande.
Chissà se mi danno la divisa? Sai quanti hanno bisogno
di questo, di quello! C'è mai andato l'idraulico a
cambiare una guarnizione? Figurati! E l'elettricista per un
filo? Mai! Miezzeca qui, Miezzeca là, pagate? Eccomi!
Guardò la moglie con dolcezza, l'accomodò meglio
alla sua spalla, reclinò la testa e dormì.
Fuori dal finestrino tutta la campagna italiana era una formalità.
Si svegliarono a Genova.
Il cielo, cupo e rigonfio, pressava i tetti delle case, sbiadiva
i colori delle cose, insaporava l'aria di pioggia. Qui era
già autunno. L'estate delle cose, insaporava l'aria
di pioggia. Qui era già autunno. L'estate lunga della
Sicilia s'era smarrita, frantumata e il suo ricordo non diede
mai pena a Miezzeca e Diletta.
"Milano... stazione centraleee...".
Milano li accolse con sfavillante e chiassosa indifferenza.
Miezzeca fu preso da una struggente commozione che mancò
poco baciasse la terra.
Passavano i giorni; possibile che ognuno si facesse gli affari
propri? L'ansia che qualcuno gli imponesse dei comportamenti
non gli lasciava la testa sgombra e non gli permetteva di
valutare appieno le circostanze. Disporre di sé lo
esaltava oltre misura, gli ci vollero dei mesi per acquistare
il giusto equilibrio.
Un pensiero stava facendosi strada nella sua mente e ne prendeva
coscienza a poco a poco, ma senza patemi: era un uomo senza
origini. La sua identità cominciava ora, da questa
scoperta.
L'indifferenza dei milanesi rasentava il menefreghismo. Tra
i condomini l'effusione più grande nel salutarsi era
un cenno del capo.
All'inizio Miezzeca ebbe un po' d'impaccio nel destreggiarsi
con la centralina telefonica, ma nessuno ebbe a lamentarsi,
davano per scontato, come si dice, che in tutti i lavori c'è
da pagare il noviziato.
Purtroppo nessuno aveva bisogno di un "mezzomestiere",
esisteva una convenzione con una agenzia che provvedeva celermente
ad inviare artigiani per tutti i guasti possibili e forniva
pure assistenza per l'ascensore e personale per le pulizie.
Non c'era da rimediare un capo di spillo oltre la paga, che
non era proprio misera, ma lo diventava per quanto era cara
la vita.
Diletta non riusciva a "guardare" un bimbo, a pulire
una mattonella, a rimediare una coppia d'uova; questo non
dispiaceva a Miezzeca, i bambini richiedevano un sacco di
tempo ed anche lo scantinato aveva continuamente bisogno di
pulizie fatte a dovere.
Natale era alle porte, alla televisione erano iniziate le
pubblicità dei panettoni.
A Miezzeca capitò un lavoretto per portare a casa qualche
palanca in più e non se le lasciò scappare.
Si trattava di scaricare i camion che portavano frutta e verdura
ai mercati generali. L'orario era infame, dalle quattro di
mattina alle sette, ma quelle tre orette venivano pagate discretamente
e poi portava a casa, gratis, ortaggi e primizie. Diletta
aveva imparato a gestire centralino e portineria, così
sostituiva il marito in quelle occasioni e nessuno ebbe a
ridire.
Comunque non c'era da scialare, entravano due lire, ne uscivano
tre. Scarpine, magliette, sciroppi, quota asilo e... e ogni
mese c'era una spesa nuova.
Natale si presentava magro, l'unica cosa buona era che il
tempo, da un po' d'anni capovolto, portava al Nord sole primaverile
e a Sud neve e bufere.
Con l'avvicinarsi delle feste, Miezzeca si sentiva avvilito,
sentiva tutta la precarietà della sua condizione economica
e, nonostante giudicasse la ricchezza una perversione, era
preso a tratti da una esasperata insicurezza. Avrebbe voluto
fare regali ai bambini e a Diletta, regali veri, frivoli,
luccicanti, e avrebbe voluto entrare con la moglie nella macelleria
di fronte a dire: "Mi incarti questo, quello, quello
là e un bel chilo di questa".
Nella macelleria c'era di tutto, dai polli ai caprioli, dalle
fettine al cinghiale e, da alcuni giorni, esposto su un tavolinetto
fuori della porta, un bel tacchino arrosto che spandeva per
la via un profumino da leccarsi i baffi.
Per effetto del tiraggio, quando la finestra dell'alloggio
di Miezzeca, dirimpettaio, era aperta, entrava in "casa"
una fragranza che sembrava di sentir sfriggolare l'arrosto.
E la finestra era sempre aperta, la caldaia andava a pieno
ritmo ed era necessario cambiare aria costantemente.
Un cartello, grande così, appiccicato al vetro della
macelleria diceva: "Per la vigilia aperti fino a mezzanotte".
Miezzeca si dilettava, con buona maestria, a fare ninnoli
colorati di cartapesta e, talvolta, gli uscivano dalle mani
veri "capolavori". Più che altro pupazzi,
animaletti, cappelli, maschere per i ragazzi. Quella volta
volle fare un tacchino arrosto; lo fece da sembrar vero, bello,
grosso, con i cosci gonfi, con il petto che scoppiava, un
tacchino americano. "Loro fan sempre le cose enormi".
Lo riempì di segatura, lo adagiò su un vassoio
di carta, di quelli per le paste, lo guarnì di rosmarino
vero, legò alle zampe due fiocchi rossi e lo depose
sulla soglia del davanzale ad asciugare.
Erano le prime ore del pomeriggio della vigilia. Un sole calduccio
incorniciava l'opera d'arte. Il tacchino vero regalava parvenze
di credibilità a quello finto, tant'è che più
di un passante si chinò sul falso ritraendosi ammirato
di tanto profumo e tanta grazia di Dio. Anche il macellaio
si fece sulla porta. "Dove han preso quel vitello? Caspita
che bestia!". Ma ci aveva un po' d'invidia ché
capannelli di gente disdegnassero il suo per l'altro.
Venne presto sera e con la sera il buio. Al macellaio rodeva
qualcosa dentro come al campione che si vede soffiare il primato
dal novellino e, colto il momento opportuno, svelto e silenzioso
come un gatto, afferrò il tacchino di Miezzeca e lo
sostituì con il suo, ancora caldo e fumante. Era tardi,
sarebbe entrata solo umidità; Diletta posò il
tacchino sulla tavola e chiuse la finestra.
Sarà stata la notte santa, sarà stato l'afrore
acuto di arrosto che pungolava lo stomaco, sarà chissà
che, ma nessuno dormiva, né moglie, né marito,
né figli. Fu il più grandicello dei marmocchi
che si arrampicò sul letto di babbo e mamma con un
bel coscio di tacchino e la bocca piena: "Avevo fame",
disse ignaro.
Miezzeca e Diletta si guardarono allibiti. Lo sguardo di lui
si fece torvo, la faccia severa. Un dubbio, veloce come un
lampo, gli trafisse il cuore: piantò gli occhi dritti
in quelli della moglie... che Diletta e il macellaio... no,
no e poi no, non era possibile e si vergognò come un
cane, prima che il pensiero diventasse compiuto.
"Che il macellaio si sia mosso a compassione? Forse le
Dame di carità? Forse i condomini? Mah!"
Anche gli altri piccoli si erano buttati sul tacchino e Diletta,
per riportarli all'ordine, saltellava intorno al tavolo come
se volasse. Miezzeca, in spregio ad ogni ragione, disse: "Mangiamo!".
Daniele Boccardi anno 1978
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