Il tacchino

Cari ragazzi, per raccontarvi questa storia bisogna che inizi da lontano, anche se il prologo è di contorno. Da lontano? Beh, tutto è relativo.
Comincerei dai nonni di Miezzeca. Il nonno era sardo e, quando fu mandato a Napoli per il servizio militare, conobbe una ragazza senza nessuno e la sposò. I due, poi, si trasferirono a Matera ed ebbero diversi figli, tra questi la mamma di Miezzeca che, fin da bambina, fu spedita a Bari a fare la serva presso una famiglia facoltosa, ma di una tirchiaggine inaudita. Purtroppo, la ragazza, analfabeta e un po' tontacchiola, cominciò, fin dall'età di quindici anni, a sfornare un figlio dopo l'altro.
Miezzeca, su interessamento del parroco, fu affidato ad un orfanotrofio che accoglieva anche trovatelli e bambini di famiglie sciagurate.
Il ragazzo, finché rimase in Istituto, non imparò né a leggere né a scrivere e neppure a conoscere i soldi; in compenso imparò a pulire alla perfezione refettori, androni, cortili, scale, piazzali, latrine. Padre, sconosciuto.
I nonni di Diletta avevano una storia parallela a quelli di Miezzeca; uno veniva dall'Abruzzo, l'altra dal Molise e il perché finirono a Reggio Calabria non si sa, si sa solo che misero al mondo una caterva di figlioli, che la madre di Diletta morì di parto e che tutte le notizie di questa discendenza finiscono qui, senza sapere nemmeno in quale cimitero si trovino le loro tombe.
Diletta viveva nel brefotrofio siciliano sin da quando era in fasce, e la sua data di nascita sconosciuta.
Le rare visite, non più di tre o quattro in una ventina d'anni che i due giovani ricevettero nei rispettivi istituti da sedicenti parenti, confermano che, tra questi, quelli che se la passavano meglio vivevano in miseria.
Certe storie, che collimano come ripassate con la carta carbone, fan pensare ad uno scherzo del destino. Scherzo del destino! Che cos'è? Qualcosa che va oltre il curioso? Qualcosa di eccentrico, di bizzarro, di inusuale? Comunque viene in mente qualcosa di raro e di negativo.
Vincere la lotteria nazionale non è uno scherzo del destino. Altro che scherzo!
Tempo fa lessi sul giornale (e lo disse anche la tivvù), che ad un tale fu lasciato nello stomaco, durante una operazione chirurgica, un batuffolo di cotone. Fatto deprecabile, ma non così unico e straordinario. Il poveretto, accusando malesseri, fu rioperato per la rimozione del corpo estraneo e, incredibile ma vero, gli fu lasciato in pancia un bisturi.
"Scherzo del destino" commentarono i mass media.
Allora, quando un fatto di per sé solo curioso, ma negativo, si ripete, vien detto scherzo del destino; e se si ripete, e si ripete sempre allo stesso modo, con accanimento, su più persone, su tante, su una moltitudine ed anche quotidianamente, come si chiama? Di chi la colpa? E di questi ragazzi che sono negli orfanotrofi, nei brefotrofi, in tutti gli altri "ofi" con un destino che li racchiude come un recinto un gregge, e omologa gli uni agli altri, che vuol dire? Che sono obbiettivi di uno scherzo perverso? Di una beffa atroce? Mah, forse è colpa del dna!
Basta, basta, non voglio impelagarmi in simili discorsi: in fin dei conti questa è una storia per ragazzi.
Alcuni Istituti dell'Isola avevano concordato programmi similari e definiti. Tra questi faceva spicco il raduno annuale che si teneva nella Valle dei Templi ad Agrigento per festeggiare gli "anziani", cioè i ragazzi che lasciavano gli Ospizi per raggiunti limiti di età. Limite fissato a diciotto anni, ma, in deroga ad una legge a completa discrezione dei Rettori, gli "ospiti" potevano rimanere sino a vent'anni; così andava a finire quasi sempre.
Il raduno era veramente un'occasione per far succedere cose grosse; si combinavano matrimoni, si davano posti di lavoro e si sceglievano, a seconda delle necessità, gli individui più adatti. Tutto questo affarìo era ben orchestrato e condotto in porto dai direttori.
Il pranzo, decente, veniva offerto dai benefattori, cinque o sei e quasi sempre i soliti che, a fine pasto, concludevano le trattative e staccavano l'assegno. Questi sapevano che i ragazzi scelti erano "doc", sicuri sotto ogni aspetto, perché quelli dimostratisi difficili avevano da tempo preso la strada delle Case di correzione e dei Riformatori che, oggi, cancellati i famigerati nomi dalle facciate, si chiamano Case di accoglienza.
Miezzeca e Diletta, sotto il profilo della garanzia, erano il meglio del meglio: ammansiti a dovere, ammaestrati diligentemente al lavoro, addestrati alla sottomissione e all'obbedienza e, cosa ritenuta dai benefattori una virtù, non erano proprio una gran bellezza.
Miezzeca fu sciupato al momento della nascita ed aveva al labbro superiore una profonda cicatrice che, se teneva la bocca chiusa, si tramutava in una brutta smorfia, se teneva la bocca lente scopriva i denti dalla parte sinistra come un ghigno. Però era forte, basso e tarchiato e con una selva riccia in testa.
Diletta non era male, solo che rideva sempre, ridacchiava di un nonnulla con un riso stoltarello che dava un po' fastidio e veniva presto a noia; poi, forse a causa di una caduta da piccola, le era stato ingessato male il braccio destro ed ora l'arto, anche se disteso, rimaneva sensibilmente curvo e girato verso l'interno.
I due ragazzi, forti di un pedigree di tutto rispetto stilato dagli educatori in anni di insegnamento e vigilanza, furono i primi ad essere accaparrati ed il benefattore, che aveva preso in appalto da un subappaltatore il servizio di pulizie in uno stabilimento di Gela, fu estremamente soddisfatto e, di più ancora, per la promessa che i due giovani si sarebbero sposati entro l'anno.
Difatti, matrimonio a Natale e viaggio di nozze a Gela per sistemare poche cose in due stanzette semiammobiliate, camera e cucina, e prendere visione del lavoro.
I due si spaventarono quando si resero conto che tutta la squadra delle pulizie erano solo loro, che le stanze da pulire erano una miriade, che il piazzale somigliava tanto ad un campo sportivo.
Inizio anno, inizio lavori. Nessuno parlò di paga.
L'angoscia più grande però non riguardava il lavoro, ma la loro unione. L'ansia di ritrovarsi a sera insieme dava loro una grande esaltazione: si scambiavano attenzioni ed effusioni ed avevano una gran premura di non offendersi, ma non riuscivano a consumare materialmente il matrimonio.
Frettolosamente, a suo tempo, il Parroco dell'Orfanotrofio ebbe a dire a Miezzeca: "Il matrimonio è un passo importante nella vita, va affrontato e sostenuto con impegno ed onestà e - si sbilanciò - va consumato con cautela. Quando il desiderio dei sensi ti prenderà affidati alla Divina Provvidenza. Capito, figliolo?".
Miezzeca fece cenno di sì, ma aveva capito solo Divina Provvidenza. Anche il prete si rese conto di avere "gettato i suoi poveri versi al vento", ma, detto quanto la prammatica imponeva, si sentì sollevato e passò la palla al dottore:
"Procurati un vasetto di vasellina e non fare la bestia. Ciao".
A Diletta ci pensò la cuoca:
"Andate a letto, spegnete il lume e mischiate il vostro sudiciume".
Miezzeca piangeva, Diletta piangeva ed aveva paura.
Fu l'infermiera dello stabilimento, una ragazza palermitana alla quale si erano rivolti per il libretto sanitario che, o per caso e perché presaga dei tormenti della "squadra delle pulizie", volle intavolare con i giovani sposi un dialogo fruttuoso.
"Cara Diletta, quando senti uno strano prurito che ti fa stringere le gambe e quando l'aria che respiri ti passa per la gola come se tu avessi in bocca una caramella di menta, è vero che in quei momento hai voglia di Miezzeca? Lo vorresti vicino vicino per abbracciarlo forte forte e baciarlo tanto, è vero?".
Diletta avvampò, abbassò la testa: "Sì".
"E tu?" rivolta a lui " Ti prende il desiderio di Diletta? Senti che vorresti soffocarla di baci? Mangiare, la vorresti, è vero?".
"Sì, è vero".
"In quei momenti il tuo pisellotto diventa duro?".
Miezzeca era un tizzo di fuoco. Una donna che parla così... Gli ronzavano le orecchie e la testa riccia era una spugna di sudore.
"Sì o no?" lo incalzò la ragazza.
"Sì".
"Oh, bene! Tutto a posto, non ci sono problemi. Allora, che fate in quei momenti? Che fai tu?".
Miezzeca ripeté le parole del parroco.
"Eh no, caro mio, tu non devi invocare la Divina Provvidenza, devi invocare Diletta, la devi chiamare a gran voce, portarla in camera e fare l'amore. Siete giovani, sani, robusti e vogliosi, avete tutto quello che ci vuole per far bene all'amore; abbandonatevi ai vostri istinti e godetevi quello che di più bello la natura ci ha dato".
I due non avevano la forza di riflettere e risposero come sotto la spinta di un comando, sovrapponendo le voci: "È peccato, sì, è peccato, peccato mortale. Dobbiamo essere più forti delle tentazioni, Satana è più vicino della camicia".
"No, non è peccato. Peccato è non farlo, perché si va contro natura. Insomma, come risolvete quando siete eccitati?".
"Lui mette la testa sotto l'acqua fresca, a me basta passarci i polsi".
La ragazza capì che doveva riorganizzare il discorso e prenderlo più alla larga, doveva sforzarsi per far breccia nella testa degli sposini, era lì che le cose non funzionavano.
"Quando vi scappa la pipì, la fate, giusto? E così quando vi scappa la cacca. Sono necessità naturali, eppure di fare la cacca ne faremo volentieri a meno, soltanto per la puzza. E la pipì? Quanto sarà fastidiosa! Ti scappa sempre nei momenti meno propizi, in autobus, dal dottore, insomma proprio quando non dovrebbe. Un po' si regge, poi dobbiamo andare al gabinetto o ce la facciamo addosso. E mangiare? Quando abbiamo fame che si fa? Si mangia, se abbiamo qualcosa da mettere sotto i denti. Dunque, cerchiamo di soddisfare le nostre necessità, altrimenti stiamo male. Se non lo facessimo avremmo forti dolori alla vescica, alla pancia, allo stomaco e con conseguenze disastrose. Chi è impossibilitato a fare queste cose naturali, perché impedito da una malattia, va dal dottore, giusto?".
Avevano capito.
"E se una persona dal fisico sano si rifiuta di andare al gabinetto, rifiuta il cibo, noi che diremmo di lei? Diremmo che è tutta scema, se non addirittura matta. Noi abbiamo due mani, due occhi, due gambe, insomma tutti gli arti e gli attributi dei quali ci ha fornito madre natura; la ringraziamo per questo e con essi facciamo quello per cui sono stati creati: lavorare, guardare, camminare, udire, parlare, eccetera eccetera.
E se una persona decidesse di tapparsi un occhio, tanto ne ha due, o di legarsi una mano dietro la schiena e adoperarne una sola, o di non parlare perché le basta indicare o scrivere ciò che vuole, cosa diremmo di lei? Che è matta, ma tanto matta, matta da ricovero, giusto?
Una persona che rifiuta i doni bellissimi e preziosissimi della natura può essere solo matta.
Sapete, c'è gente, che pure istruita ed intelligente, mortifica questi doni, per esempio non facendo all'amore, non adoperando quegli attributi che la natura le ha dato proprio per fare all'amore. Questa non vi sembra un'aberrante perversione?
Ed insegnare, istigare, costringere con i mezzi più meschini il prossimo a questa astinenza, è perfidia bella e buona, che merita la galera più del manicomio.
Ecco, se non volete subire conseguenze negative, godete di ciò che la natura vi ha dato siatele riconoscenti adoperando tutto ciò che essa vi ha fornito. Sarebbe un peccato, un peccato imperdonabile il rifiuto. Pensateci su".
Ci pensarono. Ebbero con la ragazza altri colloqui, più che altro sul metodo, ma ormai era stato aperto un varco nella loro testa e la luce cominciava ad entrare con dolce prepotenza.

Dal piazzale veniva su una polverina gialla che pizzicava come pepe, dai pini veniva giù una polverina biancastra scivolosa come sapone, dalle ciminiere calava una polverina nera appiccicosa come colla, il sole bruciava gli occhi, il vento seccava la gola. Diletta era incinta e passò alle pulizie interne, Miezzeca si ammazzava di fatica. Soldi, niente. Non sapevano come era fatta, né avevano mai sentito parlare di busta paga; sapevano che tutto quello che avrebbero dovuto riscuotere andava per il vitto, l'alloggio e contributi fiscali. Solo a volte, a mò di mancia, ricevevano qualche lira. Mangiavano alla mensa, dopo il turno degli operai, ed era la solita roba giorno e sera.
In parecchi glielo avevano detto che non ce l'avrebbero fatta a sostenere quei ritmi e che ogni anno arrivava una nuova coppia per le pulizie. Grazie all'infermiera di Palermo, ebbero il trasferimento alla sede centrale di Catania e, se pure lì c'era "l'osso da rodere" fu sempre meglio che a Gela.
Miezzeca puliva tutti gli uffici della sede, lavava le macchine, andava a prendere i bambini a scuola, portava a pisciare il cocker, andava a prendere le colazioni e, più faceva, più gli chiedevano di fare.
Era stato assunto come manovale, peccato che la sua paga venisse divisa per tre: un terzo lo tratteneva l'azienda, e non si sa perché, un terzo il benefattore, e non si sa perché, un terzo rimaneva a lui ma doveva tassativamente fare la spesa da certi bottegai dei quali gli era stata data la lista.
Diletta non era stata assunta, ma lavorava a tempo pieno e nessuno si faceva scrupoli del suo pancione. Faceva la serva alla moglie dell'amministratore delegato, alla moglie del direttore, a quelle del vicedirettore, del segretario, del responsabile dell'ufficio acquisti e... povera donna, sgobbava più d'un facchino. Comunque, con quelle due lire che gli rimanevano, la coppietta si barcamenava alla meglio e, se anche arrivavano a malapena a fine mese, erano ricompensati da una commovente armonia che aumentava nel tempo.
Aumentava anche la famiglia, ora avevano cinque figli e tirare avanti era sempre più dura e dura era anche buttar giù la "pietà" di certe signore, alle quali non potevano dire di no, che, con fare caritatevole, li riempivano di scarpe smesse, di stracci fuori moda, di pacchi di pasta scaduta. Era questo che sapeva troppo di sale.
Miezzeca cercava con ostinazione un lavoro altrove. S'era fatto uomo, teneva il sigaro in bocca così che la smorfia veniva attenuata, leggicchiava quasi tutto e, con tutto il "daffare" che gli era piovuto addosso in quei cinque anni e a Catania, se la cavava come muratore idraulico, ciabattino, barbiere, elettricista. Era un "cento mestieri".
Diletta da tempo non ridacchiava più; il suo, forse, era un tic e un giorno sparì.

"A Milano! A Milano! Ho trovato un posto a Milano".
Agitato come un tarantolato Miezzeca schizzò da Diletta come un razzo. "A Milano!A Milano!".
L'euforia non lo fece mangiare né dormire per diversi giorni e la moglie pensò che fosse andato fuori di testa, ma, proprio quando anche a lui cominciarono a sorgere dei dubbi, si presentò a casa un impiegato dell'azienda che, tra mille raccomandazioni di non fare mai il suo nome, gli diede numero telefonico ed indirizzo di Milano. Lunedì si dettero malati e telefonarono. Martedì, appena giorno, consegnarono le chiavi.
"Ecco le chiavi". Disse Diletta senza voce. Miezzeca non dimenticò quell'attimo. Diletta era il ritratto della rassegnazione e lui fu toccato profondamente dalla penetrante mestizia della moglie.
"Passerottino mio, pulcino d'oro, dolcezza infinita, non piangere, ti prego, non piangere; questa terra velenosa non merita le tue lacrime" e con il palmo della mano le asciugò le guance.
"Non piango, non piango più. Non lo so perché piango, m'è venuto così, stai tranquillo, non piango più".
Erano andati via di buon mattino, sommessamente, ma non era una fuga, semmai pudore per celare il loro sgombro tutto in un bauletto e una valigia. Non avevano rimpianti e non ne lasciavano.
L'Orfanotrofio avrebbe fornito non due, ma dieci, cento lavoranti. Che lasciavano? Niente, nemmeno debiti perché nessuno aveva mai fatto loro credito.
Miezzeca non amava la Sicilia, i suoi più lontani ricordi si perdevano in un'infanzia fatta di silenzi, di sapori di muffa e di polvere, di camerate buie, di ordini, di novene, di sensi di colpa e di troppi sguardi a capo chino.
"Senza te sono un pupo senza fili" sussurrò Diletta, poi, vinta dalla stanchezza e dal tran-tran delle rotaie, appoggiò la testa alla spalla del marito e si addormentò.
I figli, pigiati l'uno all'altro come cinque piselli in un baccello, avevano lo stesso sguardo meravigliato.
Miezzeca pensava a Milano. Portinaio in un condominio! Quanti saranno? Tanti, tanti; lassù fanno le cose in grande. Chissà se mi danno la divisa? Sai quanti hanno bisogno di questo, di quello! C'è mai andato l'idraulico a cambiare una guarnizione? Figurati! E l'elettricista per un filo? Mai! Miezzeca qui, Miezzeca là, pagate? Eccomi!
Guardò la moglie con dolcezza, l'accomodò meglio alla sua spalla, reclinò la testa e dormì.
Fuori dal finestrino tutta la campagna italiana era una formalità.
Si svegliarono a Genova.
Il cielo, cupo e rigonfio, pressava i tetti delle case, sbiadiva i colori delle cose, insaporava l'aria di pioggia. Qui era già autunno. L'estate delle cose, insaporava l'aria di pioggia. Qui era già autunno. L'estate lunga della Sicilia s'era smarrita, frantumata e il suo ricordo non diede mai pena a Miezzeca e Diletta.

"Milano... stazione centraleee...".
Milano li accolse con sfavillante e chiassosa indifferenza.
Miezzeca fu preso da una struggente commozione che mancò poco baciasse la terra.
Passavano i giorni; possibile che ognuno si facesse gli affari propri? L'ansia che qualcuno gli imponesse dei comportamenti non gli lasciava la testa sgombra e non gli permetteva di valutare appieno le circostanze. Disporre di sé lo esaltava oltre misura, gli ci vollero dei mesi per acquistare il giusto equilibrio.
Un pensiero stava facendosi strada nella sua mente e ne prendeva coscienza a poco a poco, ma senza patemi: era un uomo senza origini. La sua identità cominciava ora, da questa scoperta.
L'indifferenza dei milanesi rasentava il menefreghismo. Tra i condomini l'effusione più grande nel salutarsi era un cenno del capo.
All'inizio Miezzeca ebbe un po' d'impaccio nel destreggiarsi con la centralina telefonica, ma nessuno ebbe a lamentarsi, davano per scontato, come si dice, che in tutti i lavori c'è da pagare il noviziato.
Purtroppo nessuno aveva bisogno di un "mezzomestiere", esisteva una convenzione con una agenzia che provvedeva celermente ad inviare artigiani per tutti i guasti possibili e forniva pure assistenza per l'ascensore e personale per le pulizie.
Non c'era da rimediare un capo di spillo oltre la paga, che non era proprio misera, ma lo diventava per quanto era cara la vita.
Diletta non riusciva a "guardare" un bimbo, a pulire una mattonella, a rimediare una coppia d'uova; questo non dispiaceva a Miezzeca, i bambini richiedevano un sacco di tempo ed anche lo scantinato aveva continuamente bisogno di pulizie fatte a dovere.
Natale era alle porte, alla televisione erano iniziate le pubblicità dei panettoni.
A Miezzeca capitò un lavoretto per portare a casa qualche palanca in più e non se le lasciò scappare. Si trattava di scaricare i camion che portavano frutta e verdura ai mercati generali. L'orario era infame, dalle quattro di mattina alle sette, ma quelle tre orette venivano pagate discretamente e poi portava a casa, gratis, ortaggi e primizie. Diletta aveva imparato a gestire centralino e portineria, così sostituiva il marito in quelle occasioni e nessuno ebbe a ridire.
Comunque non c'era da scialare, entravano due lire, ne uscivano tre. Scarpine, magliette, sciroppi, quota asilo e... e ogni mese c'era una spesa nuova.
Natale si presentava magro, l'unica cosa buona era che il tempo, da un po' d'anni capovolto, portava al Nord sole primaverile e a Sud neve e bufere.
Con l'avvicinarsi delle feste, Miezzeca si sentiva avvilito, sentiva tutta la precarietà della sua condizione economica e, nonostante giudicasse la ricchezza una perversione, era preso a tratti da una esasperata insicurezza. Avrebbe voluto fare regali ai bambini e a Diletta, regali veri, frivoli, luccicanti, e avrebbe voluto entrare con la moglie nella macelleria di fronte a dire: "Mi incarti questo, quello, quello là e un bel chilo di questa".
Nella macelleria c'era di tutto, dai polli ai caprioli, dalle fettine al cinghiale e, da alcuni giorni, esposto su un tavolinetto fuori della porta, un bel tacchino arrosto che spandeva per la via un profumino da leccarsi i baffi.
Per effetto del tiraggio, quando la finestra dell'alloggio di Miezzeca, dirimpettaio, era aperta, entrava in "casa" una fragranza che sembrava di sentir sfriggolare l'arrosto.
E la finestra era sempre aperta, la caldaia andava a pieno ritmo ed era necessario cambiare aria costantemente.
Un cartello, grande così, appiccicato al vetro della macelleria diceva: "Per la vigilia aperti fino a mezzanotte".
Miezzeca si dilettava, con buona maestria, a fare ninnoli colorati di cartapesta e, talvolta, gli uscivano dalle mani veri "capolavori". Più che altro pupazzi, animaletti, cappelli, maschere per i ragazzi. Quella volta volle fare un tacchino arrosto; lo fece da sembrar vero, bello, grosso, con i cosci gonfi, con il petto che scoppiava, un tacchino americano. "Loro fan sempre le cose enormi". Lo riempì di segatura, lo adagiò su un vassoio di carta, di quelli per le paste, lo guarnì di rosmarino vero, legò alle zampe due fiocchi rossi e lo depose sulla soglia del davanzale ad asciugare.
Erano le prime ore del pomeriggio della vigilia. Un sole calduccio incorniciava l'opera d'arte. Il tacchino vero regalava parvenze di credibilità a quello finto, tant'è che più di un passante si chinò sul falso ritraendosi ammirato di tanto profumo e tanta grazia di Dio. Anche il macellaio si fece sulla porta. "Dove han preso quel vitello? Caspita che bestia!". Ma ci aveva un po' d'invidia ché capannelli di gente disdegnassero il suo per l'altro.
Venne presto sera e con la sera il buio. Al macellaio rodeva qualcosa dentro come al campione che si vede soffiare il primato dal novellino e, colto il momento opportuno, svelto e silenzioso come un gatto, afferrò il tacchino di Miezzeca e lo sostituì con il suo, ancora caldo e fumante. Era tardi, sarebbe entrata solo umidità; Diletta posò il tacchino sulla tavola e chiuse la finestra.
Sarà stata la notte santa, sarà stato l'afrore acuto di arrosto che pungolava lo stomaco, sarà chissà che, ma nessuno dormiva, né moglie, né marito, né figli. Fu il più grandicello dei marmocchi che si arrampicò sul letto di babbo e mamma con un bel coscio di tacchino e la bocca piena: "Avevo fame", disse ignaro.
Miezzeca e Diletta si guardarono allibiti. Lo sguardo di lui si fece torvo, la faccia severa. Un dubbio, veloce come un lampo, gli trafisse il cuore: piantò gli occhi dritti in quelli della moglie... che Diletta e il macellaio... no, no e poi no, non era possibile e si vergognò come un cane, prima che il pensiero diventasse compiuto.
"Che il macellaio si sia mosso a compassione? Forse le Dame di carità? Forse i condomini? Mah!"
Anche gli altri piccoli si erano buttati sul tacchino e Diletta, per riportarli all'ordine, saltellava intorno al tavolo come se volasse. Miezzeca, in spregio ad ogni ragione, disse: "Mangiamo!".

Daniele Boccardi anno 1978