Vero
o falso?
Appena entrato nel
Bar da Pia il primo istinto è fare dietrofront. Vengo
dal Teatro dove mia sorella ha il saggio di danza ed ha appena
terminato la sua esibizione; devo avvertire Ketti che i miei
vogliono seguire tutto il programma e ne avremo sino a notte
inoltrata.
L'aria aperta mi abbaglia ed è irrespirabile col puzzo
delle ciminiere.
Entro da Pia e ripiombo nell'oscurità: alle pareti
una serie di applique smorzate da ali di seta rossa nascondono
un lungo bancone con pietra di marmo, una macchina da caffè
di cara vecchia marca nostrana, un biliardo di Siena con zampe
di leone e panno spelacchiato, alcuni tavoli in ferro battuto.
Tre uomini e una donna, anziani, giocano a carte.
Sì sto per andare altrove, l'ambiente non mi attira,
poi, dietro al banco non c'è nessuno e disturbare per
una telefonata mi pare una rottura.
"Buonasera, desidera?'
Non ho nemmeno salutato.
"Buonasera, avrei bisogno di un gettone, ma non si incomodi,
non è urgente, ripasso dopo...
"Sono qui apposta"
Mi sorprende la gentilezza e la grazia, anche perché
l'apparenza tutto lascia intendere fuorché cortesia.
La signora, vistosa per i ciondoli che porta addosso, il cesto
di capelli bianchi e radi, il rossetto abbondante, il viola
che incornicia gli occhi e tanto fondotinta, posa le carte
e, mi dispiace davvero, si trascina dietro al banco e mi porge
gettone e sorriso. Mi dispiace perché ha le caviglie
gonfie e nere e le dita dei piedi rovinate dall'artrite. Lo
smalto nulla può.
Il più giovanile della briscola si alza, si versa un
bicchier d'acqua, agguanta un'arancia dal cesto e la lancia
verso l'angolo lontano dei bar appena illuminato dal giorno
che entra da una finestrella con inferriata.
"Vecchio, è tua!"
Seduto al tavolo appena rischiarato è un uomo davanti
a un gotto di rosso.
"Zac!" l'arancia si infila nel coltello a scatto
che il vecchio tiene in mano. Noto ciò a cose fatte
e lì per lì mi pare un trucco.
"Vai, lancia anche tu e il vecchio ti racconta una storia."
Ho l'impressione di essere in un altro posto, eppure dalla
porta dei bar vedo il parcheggio e l'andirivieni sul marciapiede.
Ma non entra nessuno, c'è un'atmosfera teatrale, altro
che a Teatro, con qualcosa di surreale. Perché non
me ne vado? Perché non entro nella cabina e chiamo
Ketti?
Invece prendo l'arancia senza saper che fare; coi gesto e
con lo sguardo dico "riprovi lei".
"Ehi, vecchio, ecco la cena!"
Seguo l'arancia fotogramma per fotogramma penetrare nella
lama sino al manico.
"Se 'sto scatto l'avesse nell'uccello..." commenta
la signora Pia con naturalezza che non mi imbarazza per niente.
Il cliente dice "Vai!" e mi spinge le spalle.
Che ci vo a fare dei vecchio? Che mi frega che racconta? E
se ha qualche malattia? Eppoi i vecchi mi fanno schifo.
Vo mentre gli occhi mi si abituano al rosso.
Il vecchio sembra un Caravaggio con luci e ombre nitide.
"Chiamami ventisette" mentre mi porge la sedia.
Non gli chiedo nulla, non ho intenzione né motivo di
chiedergli qualcosa... sono rotolato lì con la spinta
sulle spalle.
"Ho fatto vent'anni, ma mi dovevano dare venti medaglie
d'oro... Lo chiamavano il Tunisino... era un delinquente,
non un teppistello dei miei coglioni...
Coi coltello ne aveva affettati tanti... anche me, vedi?"
Sì che vedo, e mi fa senso: ha una narice sola, mezzo
naso, mezzo labbro superiore e, il tutto, rabberciato.
Ricucito in fretta?
Sicuramente male.
"Il pesce noti c'entra un cazzo... c'entra questo bar
e c'entra Tea, la sorella di Pia."
Guarda di là dalla grata; è senza emozioni;
forse sta inventando una storia, forse s'è spaccato
cascando dalle scale...
Taglia gli spicchi dell'arancia in due e li infila in bocca
con la punta del coltello; il gotto gli dura ché si
bagna appena le labbra.
"Lui faceva affari con i tunisini... Quando si rientrava
Pia ci dava un pasto caldo e Tea un letto... a tutti, e tutti
senza gelosie anche se tutti eravamo innamorati di lei...
Tea aveva una paura matta e aveva paura dei mare, non s'era
mai bagnata più dei polpacci...
Tea, al banco sputa un grappino sul muso al Tunisino e lui
caccia fuori il serramanico... tre dita più lungo se
l'era fatto fare e quando tirava, colpiva.
Non ne potevo più di quella prepotenza... però
ne aveva tagliati tanti e non volevo essere uno dei suoi sfregiati
che vivono con la coda tra le gambe. Mi ero preparato bene,
bene al dolore, bene con la testa perché prima bisogna
volere e poi immaginare. Quella era la serata adatta, c'era
anche bonaccia... vai per mare con un filo di gas... Ero sveglio,
allora, come la polvere, salivo la cima con la sola forza
delle braccia...
Mi sfida... no, io m'alzo col coltello in mano... ha lo sguardo
cattivo e il risolino... siamo tutti e due determinati; anche
lui me l'ha giurata. Rintano la testa nelle spalle e stringo
il coltello con tutta la forza... lui se lo passa dalla destra
alla sinistra senza levarmi gli occhi di dosso. La sua è
una tattica rischiosa, ma è un padreterno in quel maneggio...
perché rischiosa? Perché se ti casca sei morto...
perché lo fa? Per disorientarti, per costringerti a
seguire quel palleggio e in quella frazione di secondo ti
scuce. Non si sarebbe fermato allo sfregio.. e nemmeno io.
Mi teme e sta largo... ecco perché son vivo. Però,
vedi, bel lavoro mi ha fatto..
Mi fa una finta... fa finta di passarsi il coltello e da sotto
in su mi sbuzza labbro, naso e gota. Un altro non sarebbe
qui a raccontarlo, ma mi ero preparato bene al dolore e con
la testa dicevo «non mi ha fatto niente, non mi ha fatto
niente, non sento niente»... E non vedo il sangue che
m'acceca, né sento lo strazio da svenire, né
odo le grida di Tea e dei compagni... E' così che si
muore di coltello.
Il Tunisino aspetta la mia resa, rimane un attimo interdetto
e gli è fatale: lo sgozzo.
A morire dei tutto ci mette un quarto d'ora; rantola dal gargarozzo
tra bolle di sangue... son tutti vicino a me, muore solo.
Pia mi cuce subito per non farmi dissanguare... Due anni dopo
mi chiappano a Tolosa e ho fatto vent'anni di galera.
Tea non ci volle più nessuno nel suo letto.
Dopo tre giorni che so' uscito è morta come Argo.
Daniele Boccardi
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