Da "il manifesto", 10 maggio 2005

 

Buenos Aires
IL TUGURIO DELL'ULTIMO RIBELLE

Sta ancora in quella casa rattoppata del quartiere Belgrano Osvaldo Bayer el rebelde, che Osvaldo Soriano el gordo criticò e poi conobbe in anni feroci. Una vita a scrivere e fuggire
ALBERTO PRUNETTI

Osvaldo Soriano scrisse in un articolo che Osvaldo Bayer era «l'ultimo ribelle», che senza di lui sarebbe stato «più facile dimenticare». Ho incontrato Bayer nel quartiere Belgrano di Buenos Aires, in quella casa che Soriano chiamava «il tugurio». La memoria di Bayer è una sorgente meravigliosa di aneddoti. Racconta dell'esilio, della dittatura, dell'amicizia col «gordo».

«Me gusta»

Questo posto Soriano lo chiamò El Tugurio, perché la prima volta che venne qui... a lui piaceva provocare...venne qui, si guardò intorno, vide tutto e mi disse: «Vivi in un vero e proprio tugurio. Non t'offenderai per questo?» E io risposi: «Tugurio... me gusta, lo metterò sulla porta di casa...».

La condanna a morte

La storia della mia fuga ha inizio nell'ottobre 1974, quando mi iscrissero nella lista nera della Tripla A, l'Alleanza Anticomunista Argentina, che era una manica di assassini ufficiali comandati da López Rega, ministro di Isabel Perón. Una mattina sul giornale c'era questa nota: «...è stato condannato a morte dalla Tripla A il signor Osvaldo Bayer». Mi davano ventiquattro ore per lasciare il paese altrimenti ero un uomo morto. Ce l'avevano con me per il film La Patagonia rebelde, di Héctor Oliveira, che si ispirava al mio libro. Parlai con mia moglie, non potevamo correre rischi perché gli assassini facevano sul serio. Quello che prima di me era stato condannato a morte, il decano della facoltà di filosofia, si rifiutò di lasciare il paese: gli misero una bomba sotto casa e ammazzarono il suo unico figlio, che aveva sei mesi. Il giorno dopo mia moglie e i miei quattro figli partirono per la Germania, mentre io rimasi da solo qua in Argentina, perché non me ne potevo andare, non era giusto. Invitai i militari che mi avevano condannato a un dibattito pubblico nell'Aula magna della Facoltà di Filosofia, ma non si presentò nessuno. Allora corsi a nascondermi.

Mi nascosero gli amici anarchici in una villetta di Quilmes, stavo con un vecchio anarchico in una villetta avvolta dalla vegetazione. Era estate e lì faceva molto fresco, però mi sentivo tagliato fuori dal mondo. Il mio anarchico era il classico tipo vecchio stampo, non comprava i giornali, non aveva radio né televisore, perché, diceva, «qui non entrano le notizie della borghesia!». Però, claro, uno doveva essere informato anche delle notizie della borghesia... lui mi diceva: non aver paura, si alzava la giacca e tirava fuori una pistola... «Acá no entra nadie» ...sì, qua non entra nessuno, ma se viene un commando di venti persone, vuoi vedere come entrano... Iniziai a uscire, a passeggiare, la mattina andavo alla stazione, compravo il giornale, lo leggevo, mi infettavo di tutto il mondo borghese e poi lo buttavo nel cestino, così che tornavo a casa pulito. Non avevo paura, quando ti minacciano così, la paura non la senti più, pensi che non arriveranno a toccarti, che non ti faranno nulla. Un giorno me ne andai proprio nel centro di Buenos Aires, nell'incrocio tra l'Avenida 9 de Julio e Corrientes, e guarda caso con chi mi incontro? Con Rodolfo Walsh, lo scrittore argentino che poi è stato ammazzato dai militari, uno dei tanti finiti nel tritacarne della dittatura. Walsh mi disse: «Che ci fai qui?». Risposi: «Io? E tu?». E lui: «È diverso. Tu hai scritto La Patagonia rebelde». «E tu hai scritto Operacion Masacre, che è molto più pericoloso!.» «No, però non è lo stesso, non è lo stesso,... vamos a tomar un café».

L'esilio

A quel tempo ti ammazzavano se ti vedevano per strada, ma se capivano che stavi uscendo dal paese ti lasciavano andare. Me ne andai nel febbraio del `75, la condanna a morte era arrivata nell'ottobre del `74, quindi sono stato quattro mesi nascosto. Sono rimasto un anno in Germania, finché non appresi dai giornali che Isabel Perón aveva annunciato le elezioni. Bueno, mi sono detto, se ci sono le elezioni ci sarà più democrazia, più libertà, almeno così dicevano i giornali borghesi. Ma forse sui giornali aveva ragione il vecchio anarchico che mi aveva nascosto un anno prima: dopo tre settimane dal mio ritorno a Buenos Aires ci fu il golpe dei militari. Dovetti scappare di nuovo, ma adesso non era più tanto facile, se provavi a scappare ti arrestavano. Io non appartenevo a organizzazioni guerrigliere, non avevo appoggi per scappare all'estero. Il giorno che uccisero il capo della polizia la città era sottosopra, c'era polizia e esercito dappertutto, la gente veniva fermata per strada, chiedevano documenti, informazioni, precedenti. Io dovetti rifugiarmi nell'ambasciata tedesca. L'addetto culturale dell'ambasciata mi accompagnò in auto fino all'aeroporto di Ezeiza, nel tragitto verso l'aeroporto l'esercito ci fermò ma il mio accompagnatore disse che ero sotto la protezione dell'ambasciata. Arrivati nell'aeroporto dovetti mostrare i miei documenti. Mi rinchiusero a chiave con l'addetto dell'ambasciata in una stanza, pensavo che mi avrebbero arrestato. A un certo punto arrivò il comandante di Ezeiza, il brigadiere generale Santuccione, mi disse: «Lei signore ora se ne va, la facciamo partire per intercessione dell'ambasciata tedesca, ma si ricordi, mai più, mai più tornerà a calcare il suolo della patria». Mentre volavo sopra i tetti di Buenos Aires ero convinto che il militare avesse ragione, che non avrei mai più rimesso piede in Argentina, e non potevo cantare, come Carlos Gardel, Mi Buenos Aires querido.

L'amicizia con Soriano

Bueno, con Soriano al primo incontro lo insultai. Credo fosse il 1970, era uscito il mio libro sull'anarchico Severino Di Giovanni circa un anno prima, e un giorno comprai la rivista Semana gráfica e lessi un articolo su Severino Di Giovanni di un certo Osvaldo Soriano, allora sconosciuto, che sosteneva che Di Giovanni era un delinquente comune, che rubava, che assaltava, che ammazzava la gente, e mi venne un'indignazione così grande: «Chi sarà questo Soriano?» Allora chiamai per telefono il direttore della Semana, che era mio amico, e gli dissi: «Come avete potuto pubblicare un articolo che è una menzogna, una falsità assoluta?». Il direttore della rivista se ne lavò le mani, mi disse: «Ti metto in contatto con il redattore che ha scritto il pezzo e te la vedi con lui». «Pronto, qui parla Soriano...», sento nella cornetta. «È lei che ha fatto questo articolo?» «Sì, perché?», risponde. «Lei non sa niente di niente, questa che lei ha scritto è la versione della polizia, lei non è un giornalista, in questo modo quello che dice la polizia è la verità». E Soriano mi dice: «Io metto quello che trovo negli archivi, ho trovato nell'archivio... ho preso nell'archivio quello che dicevano i quotidiani dell'epoca e ho scritto». «Bene, gli dico, ma i quotidiani dell'epoca riportavano la versione della polizia!» «Ascolti...», dice lui. «No, non ascolto nulla - non so come mi è uscito,-usted es poco hombre, lei non è un uomo».

Poi dimenticai quell'episodio. Mi trovavo in esilio in Germania quando mi invitarono alla Fiera del libro di Francoforte del 1975. C'erano alcuni scrittori latinoamericani, e intanto era uscito il primo libro di Soriano, Triste, solitario y final, che mi era piaciuto tantissimo, e non mi ricordavo che era il solito Soriano che avevo insultato per telefono. Arrivai nel gruppo degli scrittori latinoamericani, e c'era un gordito, un grassottello che mi guardava strano. Un messicano mi disse: «Voi non vi conoscete?» «No, risposi, non la conosco». «Sono Osvaldo Soriano, l'autore di Triste, solitario y Final». E io: «Ah, mi congratulo! Un libro eccellente, magnifico, muy muy bien!». E lui: «Sì, però sono poco hombre». Risposi: «Perché mi dice questa cosa?» «Perché lei mi insultò per telefono, mi disse che ero un ometto». «Ah, mi dispiace, ad ogni modo andiamo a farci un caffè». Ce lo bevemmo e fu l'inizio di una grande amicizia.

Nunca mas

Soriano tornò a Buenos Aires un anno prima di me, tornò quando la dittatura stava cadendo. Poi tornai anch'io e iniziammo a fare un raduno di intellettuali, ci riunivamo in cinque, sempre qui, nel patiecito di casa mia, che è un vero e proprio tugurio, David Viñas, León Rozitchner, Tito Cossa, l'uomo di teatro, Soriano e io. E Soriano arrivava sempre un po' in ritardo, e portava la nota provocatoria. Per esempio faceva delle affermazioni solo per accendere la miccia, diceva: «Non so, stavo pensando che non mi sembra così male il cattolicesimo...». E allora scoppiava un inferno, si arrabbiavano Rozitchner, Cossa e Viñas, si mettevano a discutere, e continuavano infuriati tutta la notte, mentre io e Soriano bevevamo e li ascoltavamo.Poi Rozitchner diceva a Soriano: «Che hai qualche rimasuglio cattolico?», e Soriano rispondeva: «No, ma bisogna portare rispetto...», solo per farlo arrabbiare. «Che devo rispettare? - diceva Rozitchner a Soriano, che veniva accusato di cattolicesimo - voi cattolici avete un torturato sul muro, un crocefisso, un elemento di tortura che tenete in tutte le camere, sopra il letto, e fate l'amore guardando il torturato, fate i figli pensando alla tortura...» e continuavano a questo modo per tutta la notte.Sempre Soriano arrivava in ritardo, e tirava fuori un tema di discussione, li provocava, gli altri si arrabbiavano, e poi si metteva da parte con me, io e Soriano li ascoltavamo e ci bevevamo sopra. Quando Soriano morì, nunca mas nos volvimos a reunir. Non ci incontrammo. Mai più.


L'altro Osvaldo d'Argentina

Osvaldo Bayer (Santa Fe, Argentina, 1927) è uno degli scrittori argentini più popolari. I suoi lavori di indagine storica, posti al crocevia tra il romanzo e l'indagine archivistica, hanno rivelato la ferocia del potere istituzionale e riscattato dall'oblio le storie dimenticate di ribelli e refrattari. Tra le sue opere: La Patagonia Rebelde; Severino Di Giovanni, el idealista de la violencia; Los anarquistas expropiadores; Simón Radowitzky, ¿mártir o asesino?; La masacre de Jacinto Aráuz; A La Patagonia Rebelde, proibito negli anni della dittatura militare argentina, si ispirò l'omonimo film di Héctor Oliveira, vincitore di un Orso d'argento al festival di Berlino.