Da "il manifesto", 25 settembre
2005
ROM
Il matrimonio dei Kalderasha
Una comunità festeggia secondo la tradizione.
Settecento persone convenute da tutta Europa in un campo vicino
Treviso per tre giorni di passione raccontati da un fotografo
gagé
ALBERTO PRUNETTI
Il
campo affittato per la cerimonia è grande quattro ettari;
da una parte hanno montato un gazebo enorme carico di fiori
e piante, con due ulivi sistemati in vasi giganteschi: qui
si raccolgono i parenti della sposa, arrivati da Reggio Emilia;
dal lato opposto c'è un gazebo più piccolo con
i familiari dello sposo, che vivono nel Veneto. Le loro origini
sono comuni e si perdono oltre il confine con l'Istria. Tutto
intorno al perimetro una ottantina di camper e molte auto,
in gran parte Mercedes, per un totale di circa settecento
persone. «Ci hanno presentati ai genitori dello sposo,
ventun anni lui e diciassette la sposa - mi spiega Stefano,
uno dei tre fotografi invitati a immortalare le nozze - ci
istruiscono sulla cerimonia e su come limitare il numero delle
foto, perché tutti le chiederanno. Tutti ci accolgono
con semplicità e cordialità».
I monili d'oro
Le donne portano la gonna
lunga sino ai piedi, i capelli legati da un fiocco le sposate,
sono ricoperte di monili d'oro e non smettono per un momento
di dedicarsi ai preparativi per i banchetti. Gli uomini hanno
la pancia da bevitori di birra e la barba rasata; anche loro
sono ricoperti di anelli, catene, orologi e bracciali d'oro,
bevono e offrono da bere in continuazione bottigliette di
birra da 33 cl, brindano dopo aver versato il primo sorso
per terra o nelle bacinelle piene di ghiaccio dove le bottiglie
si raffreddano. «Ci dicono che verso le 13 possiamo
mangiare un boccone e che alle 15 inizierà il lavoro
fotografico», aggiunge Stefano. In realtà, tra
musiche balli e birre i commensali raggiungono i tavoli alle
16 e 30. Ma alle 17 un rom, che per tutta la cerimonia assolverà
le funzioni di speaker, comincia a urlare: «Dov'è
l'amico fotografo? Fotografo! Tu mettiti lì fotografo
e quando te lo dico io scatta». Con Stefano c'è
Christian che si occupa delle riprese video, ma è terrorizzato
perché ogni cinque minuti il padre della sposa lo fulmina
con un'occhiataccia: «Tu riprendi tutto! Non voglio
ripetere due volte, che se non viene più che bene...».
Poi però si gira verso Stefano e la bocca si apre in
un sorriso, mentre strizza l'occhiolino.
Il turbofolk serbo
Intanto la cerimonia prosegue
con ritualità centenaria. Ogni nucleo familiare viene
presentato agli sposi, si offrono dei mazzolini di fiori,
gli invitati devono ballare davanti alla coppia e agitare
una bandiera rossa adorna di fiori. La musica è sempre
la stessa, un bel pezzo di turbofolk serbo: quando finisce
lo rimettono da capo, all'infinito. «Ci accorgiamo che
la nostra previsione di pellicole è ridicolmente inferiore
alle necessità: ne avevamo portate 15, finiremo col
farne 55, quasi 2000 scatti e 10 ore di registrazioni video.
Nei dintorni c'è un ipermercato, me ne vado a comprare
un po' di pellicola. Mi sconvolge lasciare il campo e la festa
per andare in un centro commerciale con svincoli, rotonde,
parcheggi e voci metalliche registrate. La gente è
indaffarata, sfuggente. Mi guardano anche male, forse mi hanno
preso per uno zingaro. Intorno al campo girano pattuglie di
polizia, carabinieri e vigili urbani. Il giornale locale parla
di preoccupazione degli abitanti del posto per la festa. In
effetti gli unici gagé siamo noi e la famiglia del
proprietario del terreno».
Maialini e gulasch
Nel frattempo al campo la
situazione si fa ancora più calda. Si beve, si balla,
si mangia continuamente, tra un continuo girare di maialini
allo spiedo, pentoloni di gulasch, peperoni ripieni di carne
piccante, spezzatino con piselli, grigliate di carne, patate
e pomodori. Gli uomini passano e stappano con le forchette
birre su birre, un tipo incontra Sandro, il terzo foto-operatore,
e gli urla contro: «Fotografo! vieni a bere una birra
con me sennò ti ammazzo!» Poi scoppia a ridere
e lo abbraccia commosso.
La birra scorre a fiumi e
sui fotografi cala finalmente la notte.
Il secondo giorno
di festa
Il giorno successivo comincia
con altre danze e presentazioni di ospiti, mentre un separé
di trine divide il camper della sposa dal resto del gazebo.
Seguono le foto alla coppia in un parco di Treviso, raggiunto
con una carovana rombante di Mercedes incuranti di semafori
e divieti d'accesso. Di ritorno al campo, il set viene nuovamente
spostato: la nonna dello sposo non può spostarsi da
casa e la coppia passa per una visita e per le necessarie
formalità fotografiche. «Gli sposini partono
da soli come razzi su una Porsche, noi riusciamo in qualche
modo a seguirli mentre al nostro passaggio la gente in bicicletta
finisce nei campi e ci lancia saluti in ostrogoto»,
racconta il fotografo ridendo.
Un giardino, una casa in
costruzione abbandonata, un container su quattro pali di ferro,
un camper sotto una rete antigrandine e infine una baita di
legno con guglie di tipo ungherese: da qui esce una bella
signora bionda agghindata d'ori per fare le foto con gli sposini
rombanti. Tra una foto e l'altra Stefano parla con un capofamiglia.
«Mi ha spiegato con chi i Kalderasha sono in buoni rapporti
e con chi no. Gagé a parte - cioè non zingari
- non se la intendono molto con i sinti e i giostrai in genere,
che accusano di aver trascurato le tradizioni. Sono in buoni
rapporti con i Rom che vivono nei territori della ex-Jugoslavia
e in Spagna, ma non hanno buone relazioni con i rom che vivevano
in Romania, e che adesso stanno invadendo i campi italiani.
Mi ha detto anche che presto forse sarà il tramonto
per il loro mondo: nascono sempre meno figli, i giovani sono
diversi, matrimoni così anche in Albania o Macedonia
ce ne sono sempre meno; erano otto anni che non si faceva
una festa di tre giorni, la rete di parentela che deve sopperire
a tutto e a tutti è sempre meno estesa».
Il nonnetto dall'Albania
Ma intanto la festa prosegue,
continuano ad arrivare camper con delegazioni di altri gruppi
parentali in visita da ogni angolo d'Europa. Dall'Albania
è arrivato un nonnetto con un impeccabile blazer azzurro
e cappello texano bianco in testa, dalla Bosnia un rom gigantesco
che quando balla davanti agli sposi è veloce e leggero
come una farfalla. Lo speaker continua senza sosta a parlare
nel microfono in roman, la lingua dei Rom, una sorta di esperanto
con forti dominanti balcaniche. All'improvviso fa il suo ingresso
nel campo una Ferrari, ne esce un rom con degli enormi baffoni
a manubrio che approfitta dell'occasione per sventolare un
mazzo di banconote. Dopo neanche cinque minuti il tipo sfila
il portafogli di Sandro, uno dei fotografi. Sandro se ne accorge
e gli chiede spiegazioni: «Sto controllando chi sei,
se sei un poliziotto infiltrato per te sono guai», si
sente dire. Ma il portafogli degli scalcinati fotografi è
vuoto finanche di quattrini. «Non è da uomini
girare senza soldi in tasca», ribatte il rom, e fa l'atto
di metterci dentro due banconote da cinquecento euro. «La
cosa pazzesca è che Sandro ha pure rifiutato l'offerta
- aggiunge Stefano - Io ho continuato a fotografare il baffone
per tutta la sera, nella speranza che mi tirasse qualche banconota,
ma non c'è stato niente da fare... ».
Il terzo giorno di
festa
Nel terzo giorno si svolge
la parte più importante del matrimonio. Dal gazebo
dello sposo parte un corteo danzante su musiche balcaniche
sparate altissime, portano altri regali, sventolano la bandiera,
hanno al collo mazzi di cravatte che saranno poi scambiate
con doni in moneta. Alcuni portano delle fasce in testa, le
donne ballano quasi in estasi tra il tintinnio di collane
e di orecchini d'oro. Il corteo invade il gazebo della sposa
tra musiche ancora più frastornanti, mentre lo speaker
urla i nomi di tutte le famiglie in una esplosione totale
di colori, suoni e sorrisi. L'ultimo rito prevede la trattativa
tra i mediatori dello sposo e il padre della sposa, il finto
litigio, il padre che ordina altre danze e altri regali. La
cerimonia segue una metafora pastorale: i mediatori dicono
che in questo prato hanno avvistato una bella pecorella, e
che il loro montone (lo sposo) tanto la desidererebbe. Il
microfono arriva nelle mani di alcune donne della parte della
sposa: belano, e tutti ridono e dicono che non è quella
la voce della pecorella che ha stregato il montone. Alla fine
il microfono passa alla sposa e mentre tutti urlano di sì,
questa con lo strascico e gli ori viene issata da padre e
parenti, scavalca il tavolo e finisce tra le braccia dello
sposo. E allora riesplode la sarabanda mentre lei piange commossa.
Dopo è il momento
dei regali: ogni famiglia invitata si fa fotografare con gli
sposi, mentre musiche e discorsi si accavallano. Gli sposi
offrono delle cravatte in cambio dei doni nuziali, che consistono
perlopiù in denaro contante e ori: il capofamiglia
tira fuori le banconote che vengono contate pubblicamente
dallo speaker tra applausi di approvazione e messe dentro
un grande pane circolare svuotato della mollica. Ormai è
notte: la luna piena, virata di rosso, appare tra le nuvole
nere che si addensano. Ma si va avanti: altro banchetto, altra
torta, altre musiche, birre e fotografie. La sposa mangia
pane e sale su un braccio dello sposo, poi si cambia d'abito
e le nuvole rovesciano l'acqua che sigilla la cerimonia.
All'alba sulla campagna
trevigiana scende il silenzio, i rom si disperdono per l'Europa.
LA COMUNITÀ
GIROVAGA
I rom Kalderasha rappresentano uno dei gruppi più numerosi
tra i migranti rom che si spostarono dai Balcani verso Occidente
nella seconda metà del XIX secolo. Gli antenati dei
Kalderasha vivevano probabilmente in Romania e il loro nome
sarebbe un prestito dal rumeno kelderas, variante dialettale
di kelderar («calderaio» o «stagnino»):
molti Kalderasha si dedicavano infatti alle arti del metallo.
Oggi sono molto dispersi: esistono comunità Kalderasha,
oltre che in Europa, anche in Siberia, nelle Americhe, in
Australia e in Sudafrica. I matrimoni rappresentano l'occasione
per riunificare la comunità girovaga. (a. pr.)
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