Da "il manifesto", 30 luglio
2005
SUDAMERICA
«Gente della terra», senza
terra
120 anni di disperata lotta per la propria terra,
raccontati da Roberto Ñankucheo, un werken
(portavoce) della comunità mapuche di Neuquen, nel
sud dell'Argentina
ALBERTO PRUNETTI
Mapuche vuol dire «gente
della terra», ma il territorio dei Mapuche scompare
sotto l'assedio dei grandi latifondisti. Il conflitto tra
i Mapuche e la Compañia de Tierras del Sur Argentino
(Ctsa) è arrivato alla fine del suo percorso giudiziario.
Per la corte argentina le terre della Patagonia appartengono
a chi ne è proprietario secondo i titoli catastali
riconosciuti dallo stato. Ma un portavoce dei Mapuche parla
di una prospettiva di appartenenza al territorio che non trova
posto nella logica dei tribunali. «Sono Roberto Ñankucheo,
sono un werken, un vocero, un portavoce
della comunità Mapuche di Neuquen, nel sud dell'Argentina.
I Mapuche vivono in cinque province in Argentina: Buenos Aires,
Rio Negro, Neuquén, Chubut e nella zona nord di Santa
Cruz. Poi ci sono i Mapuche che vivono in quello che oggi
si chiama Cile, ma che per noi è gulumapu, la terra
dell'ovest. Noi per loro siamo puelche, siamo gente dell'est».
Puoi riassumere brevemente
il contrasto tra i Mapuche e la Compañia de Tierras,
che fa capo al marchio italiano Benetton?
Benetton è un imprenditore
che ha comprato in Patagonia, dove vive il popolo Mapuche,
poco meno di un milione di ettari di terreno. Questo si può
fare solo con la complicità dei governanti, che hanno
venduto tierras fiscales, terre comunitarie, demaniali, o
terre comprate da altri estancieros di cui non si avevano
titoli di proprietà chiara. Questa terra fu sempre
occupata dai Mapuche, ma lo stato argentino non applica la
riforma della costituzione del 1994, che riconosce la preesistenza
degli indigeni allo stato e a quelli che detengono titoli
di proprietà convalidati dallo stato. La legge dice
che abbiamo diritto a questi territori ancestrali, ma lo stato
argentino non si pronuncia contro Benetton. Il caso più
noto è quello della famiglia Curiñanco-Nahuelquir,
accusata di aver usurpato terre che appartengono a Benetton.
C'è stato in primo luogo una denuncia penale contro
i Mapuche per usurpazione, c'è stato un primo verdetto
della giustizia penale che dice che non ci fu usurpazione,
perché non ci sono gli elementi di reato: non ci fu
abuso, non ci fu clandestinità, non ci furono danni,
non c'erano insomma le caratteristiche di reato. Però
la giustizia civile dice che Benetton possiede un titolo sufficiente
di proprietà e non si può dimostrare l'uso ancestrale
di questo territorio da parte del popolo Mapuche. In realtà
anche in tempi recenti lo stato non ha mai regolarizzato il
diritto di proprietà dei Mapuche su questi territori,
perché sempre preferisce dare garanzia giuridica agli
imprenditori, all'invasione, piuttosto che alle comunità.
Vorrei che tu parlassi
della differenza tra l'idea europea di essere proprietari
di un terreno e il concetto che hanno i Mapuche del fatto
di vivere su un territorio.
Intanto bisogna capire che
su questo punto - «essere proprietario» o «essere
parte» - si radica la differenza tra due cosmovisioni
completamente antagoniste. Noi pensiamo che siamo parte del
territorio, parte della natura, noi spieghiamo la nostra esistenza
- come popolo e come individui - con la maniera in cui ciascuno
spiega la propria origine. Ogni Mapuche viene da un elemento
della natura: questo significa che per ciascuno di noi la
propria origine sta in una forza che risiede nel nostro territorio,
in questo territorio dove noi viviamo. Nel mio caso, io sono
Ñanku - questo è il mio cognome, Ñankucheo
- e Ñanku è un'aquila, un aquilotto di questa
zona, con il petto bianco. Io spiego la mia esistenza a partire
dal tuwun (origine geografica, ndr) e dal kvpalme (origine
culturale della natura, ndr), che spiegano da dove ognuno
di noi viene: il kvpalme indica da quale elemento naturale
veniamo e il tuwun ci dice geograficamente di dove siamo.
Il giorno che non ci saranno più Ñanku scomparirà
la mia origine, scomparirà il fondamento con il quale
spiego la mia appartenenza a uno spazio territoriale. Da qui
si fonda il nostro senso di appartenenza a un luogo: appartenere,
e non essere proprietari. Però se noi diciamo che non
ci sentiamo proprietari di un territorio, questa affermazione
viene utilizzata da chi dice, come Benetton: «Io sì,
sono il proprietario». Questo è difficile spiegarlo
in una società come quella europea, dove ogni territorio
si possiede storicamente attraverso una logica di invasione.
Immagino sia anche più difficile in una cultura come
quella italiana, che discende dall'impero romano. E il diritto
romano è la fonte del diritto in Argentina: sulla base
di un'idea di proprietà sviluppatasi nel diritto romano
si tolsero i terreni ai popoli originari. E ancora oggi si
applica questa base di diritto romano che non considera la
possibilità dell'uso ancestrale della terra, del fatto
di essere parte della terra senza esserne i proprietari: il
diritto romano non conosce i concetti di kvpalme e tuwun.
Sono definizioni, sono cosmovisioni che non si incontrano.
Inoltre la «cosmovisione»
occidentale, basata su un'idea di sviluppo intesa come estrazione
di risorse, è riuscita a creare una nuova realtà
nel mondo dei popoli originari: la miseria. In Africa molti
popoli originari non possedevano la parola «povertà»
fin tanto che non arrivarono gli europei...
Anche nella nostra lingua,
il mapudungu, non esiste la parola «mancare»,
perché prima non mancava nulla: eravamo parte della
natura e questa ci dava quello di cui avevamo bisogno per
vivere. Non c'era il concetto di «essere povero»,
di «necessitare qualcosa». La parola «mancare»,
«necessitare» non è una parola della nostra
lingua, nel mapudungu non si può dire «mancare»,
«aver bisogno di...», bisogna aggiungere il verbo
«faltar» dallo spagnolo. É lo stesso qui
in America, in molte delle culture originarie non esiste la
parola «povertà», «necessità»,
queste parole arrivarono con l'invasione europea.
Questa capacità
degli invasori europei di creare definizioni che impoveriscono
la realtà è un concetto interessante. La conquista
della Patagonia venne chiamata «la campagna del deserto».
Però non c'è il deserto in Patagonia...
Gli huinca pensavano in modo
autoritario: «se non ci sto io, questo luogo è
disabitato». Gli indios per loro erano selvaggi, non
erano uomini: quindi la nostra terra era un deserto. C'erano
popoli, c'erano culture che convivevano con la natura, e avevano
vissuto con la natura per migliaia di anni, ma gli occidentali
dissero: «qua, se non ci sono città non ci si
può vivere, e pertanto questo è un deserto».
Tutto dipende dalla cosmovisione, dalla maniera di vedere
il mondo. Gli occidentali non rispettano la cosmovisione degli
indigeni, di chi vive in questi luoghi. Se si fossero messi
ad ascoltare come intendiamo noi la natura, come è
possibile relazionarci con la natura... il mapudungun è
la lingua, l'idioma che ci permette di relazionarci con la
natura. Ma loro mai si fermarono ad ascoltare: capiscono solo
quello che è scritto, o che viene convalidato da un
tecnico, un professionista, un saggio che dica loro come stanno
le cose. Tutte le spiegazioni le generano dalla propria maniera
di comprendere il mondo. Non si rendono conto che ci sono
molti più mondi che loro ancora non comprendono. Non
compresero nemmeno che loro non avevano scoperto l'America:
come potevano «scoprire» un continente che già
era abitato? Devono rendersi conto che non hanno scoperto
niente, che c'erano già altre culture che vivevano
qui da migliaia di anni. Però in 500 anni non si sono
resi conto di non avere scoperto niente, e ancora pensano
di dover portare civiltà e sapere. Ma è un sapere
che porta la distruzione.
E la distruzione arriva
a colpire la vita delle persone. So che ci sono alcuni Mapuche
che sono in carcere solo per difendere le loro idee.
Qui in Argentina ci
sono molti processi contro i Mapuche, e altri ancora ce ne
sono contro i nostri fratelli in Cile: anche loro sono parte
del nostro popolo e li sentiamo come carne propria. In Cile
c'è un livello molto alto di repressione. Di fatto
ci sono cause aperte contro circa cento fratelli Mapuche,
e altri Mapuche sono stati condannati a dieci anni di carcere.
Nel caso mio sono stato in prigione un mese e mezzo per «usurpazione
di terra», un'accusa ridicola: come posso usurpare il
mio territorio? Lo stato non è mai stato persuasivo,
né con le parole né con gli impegni. Anzi: la
persuasione è sempre venuta per mano delle armi. Prima
con la croce e la spada, e oggi con una spada più sofisticata,
ma è la stessa che cinquecento anni fa provò
a sottometterci.
LA CONQUISTA DEL DESERTO
Il territorio dei Mapuche è stato occupato dallo stato
argentino in maniera stabile solo con la campagna militare
del 1879, conosciuta come «La conquista del desierto».
A partire da questa data i Mapuche hanno vissuto perlopiù
su terre demaniali o nelle riserve, su cui hanno sempre mantenuto
titoli di proprietà precari. Negli ultimi anni il riconoscimento
del carattere genocida della campagna del deserto e l'attivismo
dei popoli originari ha indotto lo stato argentino a riconoscere
nella nuova costituzione del 1994 la preesistenza dei popoli
originari allo stato argentino e il loro diritto alla proprietà
dei territori ancestrali, ma questa dichiarazione di principio
rimane valida solo sulla carta e non si traduce in impegni
concreti. Le comunità aborigene sono «traslocate»
da un giorno all'altro in aree diverse solo perché
le terre demaniali su cui vivono sono state messe improvvisamente
in vendita, o perché la scoperta di idrocarburi le
rende appetibili alle multinazionali. Ai nostri giorni la
campagna del deserto sventola le bandiere delle sviluppo forzato
e della libertà di commercio. (a. pr.)
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