Da "A Rivista anarchica"
n. 311, ottobre 2005
Primitivismo,
anarchia
di Stefano Boni e Alberto Prunetti
Il problema resta
sempre il solito: scegliere se costruire un mondo dove i capi
ci assomigliano o immaginarsi un mondo senza servi né
padroni.
- Anarchismo e società
acefale
Gli scrittori anarchici
hanno spesso utilizzato nozioni, studi, esempi antropologici.
Vari teorici libertari – dal Kropotkin de Il mutuo appoggio
sino ai meno conosciuti naturiens francesi della fine del
XIX secolo, come Emile Gravelle – hanno dimostrato un
vivo interesse verso quelle che sono state successivamente
definite le società acefale, ovvero i gruppi umani
privi di strutture statali. Dalla costituzione di homo sapiens
sapiens come specie (circa 100.000 anni A.C., nella stima
più prudente) fino alla nascita dei primi villaggi
che mostrano i segni di una centralizzazione politica ormai
avanzata (nel Vicino Oriente circa 6.000 anni fa), tutti i
gruppi umani erano organizzati in società acefale.
In questi ultimi diecimila anni, e in particolare dall’Ottocento,
le società prive di stato sono state sistematicamente
assimilate o annientate con campagne di sterminio di cui ancora
non si ammette la gravità. Piccoli gruppi – spesso
in rapporto con società adiacenti e con gli stati nazionali
ma privi di strutture di potere centralizzato – sono
però sopravvissuti fino alla metà del Novecento
e sono stati osservati e descritti dagli antropologi.
- I raccoglitori-cacciatori
Oltre all’assenza o
al rifiuto dello stato, questi gruppi hanno altre caratteristiche
interessanti. Sono tendenzialmente nomadi, vivono in campi
composti di qualche decina di individui ma possono costituire
delle reti che hanno popolato interi continenti per millenni.
Nei rari casi in cui praticano l’agricoltura, questa
tende ad essere un’attività stagionale che si
affianca alla raccolta di prodotti offerti dall’ambiente
e alla caccia. È praticamente assente la proprietà
privata e, conseguentemente, non esiste stratificazione sociale.
I gruppi sono caratterizzati da una sostanziale eguaglianza
tra i membri: l’autorità si accentra in alcune
persone in momenti specifici ma il prestigio è transitorio
e non genera la possibilità di ricorrere alla coercizione.
Anche se raramente esiste un’uguaglianza assoluta tra
i sessi, il dominio maschile è tendenzialmente meno
pronunciato rispetto alle società agricole e industriali.
Questi gruppi – con rare eccezioni – sono stati
massacrati o si sono trasformati. L’alterazione dell’equilibrio
egualitario investe, in genere, diversi aspetti tra loro correlati:
l’intensificazione della densità di popolazione;
la costruzione di abitazioni stanziali; l’adozione di
un sistema agricolo intensivo; l’elaborazione di un
corpus giuridico; la specializzazione produttiva (con conseguente
affermarsi di soldati, clero, burocrati, etc.); l’introduzione
della proprietà privata e della moneta; l’affermarsi
di entità politiche in cui il potere era centralizzato
e l’utilizzo della violenza legittimo.
La presenza di raggruppamenti umani privi di un potere politico
centralizzato ha suscitato l’interesse dei pensatori
anarchici del passato perché questi gruppi permettevano
di sostenere – in un mondo Occidentale che aveva ormai
teorizzato l’inevitabilità dello stato –
la possibilità di un’organizzazione priva di
gerarchia. Si poteva dimostrare che una parte cospicua dell’umanità
aveva vissuto senza essere assoggettata a forme statali: l’anarchia
era quindi un’utopia praticabile. Le società
acefale che stavano scomparendo giustificavano un progetto
per il futuro.
- Il primitivismo
Negli ultimi venti anni si
è sviluppata una corrente di pensiero nel movimento
libertario statunitense che si definisce sostanzialmente con
i termini di “primitivismo” e “Green Anarchy”.
In maniera sommaria si possono distinguere tre varianti del
movimento primitivista:
-
La corrente proveniente dall’area
di Detroit: vicina alle posizioni del marxismo libertario,
attenta alla critica della domesticazione del pensatore
francese Jacques Camatte; l’autore più interessante
di questo filone è forse Fredy Perlman, autore
di Against His-story, Against Leviathan! La rivista principale
di quest’area è stata a lungo Fifth Estate.
-
La corrente anarcoprimitivista
vicina a John Zerzan: probabilmente quello di John
Zerzan è il nome più noto del Green Anarchism;
Zerzan ha il merito illustrare una critica anarchica alla
civiltà con una ricca documentazione sulle popolazioni
di raccoglitori-cacciatori; in tal senso restringe il
discorso più generico sui “selvaggi”
già elaborato in Europa da Clastres e approfondisce
la riflessione sulla sostenibilità ecologica dello
stile di vita dei raccoglitori-cacciatori, utilizzando
i nuovi spunti dell’ecologia antropologica americana
(attingendo in particolare dagli studi di Richard Lee).
Al tempo stesso Zerzan ha elaborato una discussa analisi
delle conseguenze della domesticazione, estendendo il
proprio interesse critico verso il linguaggio, il numero,
e le categorie dell’attività simbolica. Rivista
di riferimento: Green Anarchy.
-
La corrente di ‘Deep Ecology’:
il filone vicino alla rivista ecologista Earth First!
Journal e al movimento di Deep Ecology è più
variegato, nella pratica e nella teoria, animato in primo
luogo da un ecologismo caratterizzato dall’azione
diretta; in quest’area si possono collocare gli
scritti di Edward Abbey, l’autore di Deserto solitario.
Ragionando per sommi capi,
si può sostenere che, rispetto alle precedenti riflessioni
anarchiche sull’antropologia, il primitivismo propone
due innovazioni teoriche di rilievo:
-
Le società acefale non erano
solo egualitarie ma erano società che vivevano
nell’abbondanza e godevano di uno stato di salute
invidiabile. Sono, inoltre, le uniche società che
hanno vissuto in un totale equilibrio di lungo periodo
con il loro ambiente circostante. Questo rende il primitivismo
particolarmente interessante per le sue implicazioni ecologiste.
-
Con l’introduzione dell’agricoltura,
viene meno l’equilibrio demografico, ambientale,
economico e l’autogestione. Inizia un lungo percorso
di degradazione di cui abbiamo il dubbio privilegio di
assistere al collasso finale.
Inoltre, rispetto al pensiero
libertario ‘classico’, con il primitivismo si
possono individuare due assunti evidenti.
-
Alla critica dello stato si affianca
la messa in discussione della tecnologia, che è
vista di per sé come negativa.
-
La preoccupazione critica, più
che sul potere o sull’oppressione, si sposta sulla
stessa sopravvivenza del genere umano, strozzato da un
‘progresso’ che ormai compromette l’ambiente
e la possibilità stessa dell’esistenza.
-
La soluzione non è più
(solo?) la rivoluzione ma l’abbattimento della tecnologia.
Solo il regresso tecnologico può ripristinare l’eguaglianza
e garantire un futuro di lungo periodo alla specie umana.
Un problema controverso: che fare della tecnologia?
Quello della tecnologia è
uno dei punti su cui si concentra spesso il dibattito nel
corso dell’esposizione delle tesi primitiviste. Secondo
un’analisi comune a molta letteratura primitivista,
la rottura degli equilibri iniziata con l’avvento dell’agricoltura,
si è amplificata drammaticamente negli ultimi due secoli.
L’inquinamento elettromagnetico, il riscaldamento terrestre,
la desertificazione, l’estinzione di un numero senza
precedenti di specie vegetali ed animali, l’inquinamento
progressivo e irreversibile delle falde acquifere, l’introduzione
di organismi geneticamente modificati la cui nocività
è difficilmente immaginabile, l’utilizzo di risorse
non rinnovabili o rinnovabili solo dopo lunghi periodi, la
distruzione delle foreste pluviali e la compromissione della
fertilità del suolo in molte zone della terra sono
diversi indicatori di un collasso immanente. In questo senso
il rifiuto della tecnologia viene visto come un’ipotesi
praticabile per la società del futuro.
Altri interlocutori approvano la criticità di questo
scenario ma suggeriscono ipotesi alternative sul problema
della tecnologia e ipotizzano una distinzione tra una tecnologia
conviviale e una tecnologia distruttiva. In tal senso propongono
la possibilità di inventarsi un futuro a partire dall’autogestione,
eliminando una buona parte di quella che è la fabbrica
del superfluo in cui sembra essersi specializzato il mondo
contemporaneo, conservando però quelle macchine, quegli
apparecchi il cui impatto ambientale è realmente sostenibile
e i cui benefici sono evidenti. Il dibattito rimane aperto,
e le stesse posizioni degli estensori di questo articolo sono
divergenti al riguardo.
Anarchismo e indigenismo
Un altro punto interessante
è quello della possibilità di una confluenza,
attraverso il primitivismo, tra anarchismo e movimenti indigeni.
Negli ultimi anni in più parti del pianeta i popoli
indigeni – siano gli ultimi rappresentanti dei decimati
raccoglitori-cacciatori, o i gruppi di agricoltori ormai stanziali
– hanno sollevato il problema della propria esistenza,
della propria identità e della necessità di
riappropriarsi dei territori ancestrali di cui sono stati
spogliati. La realtà dei movimenti indigeni è
molto variegata, e ci sono tendenze diverse: dall’etno-nazionalismo
di alcuni settori del movimento Mapuche ai gruppi di nativi
australiani che si oppongono al domicilio coatto nelle bidonville
sforzandosi di vivere secondo lo stile di vita di caccia e
raccolta almeno per alcuni mesi dell’anno; dalle lotte
degli aborigeni di West Papua fino alle traiettorie di resistenza
alla subalternità dei nativi nordamericani. Anche qui
non mancano risposte facili e risposte complesse; una risposta
semplice potrebbe essere quella della costruzione ad hoc dell’identità
attraverso il semplice richiamo all’etnia e al sangue;
di certo nel campo della resistenza indigena, oltre a pratiche
di resistenza (occupazione di campi, azione diretta) non mancano
spunti teorici interessanti, come quelli della rivista Mapuche
“AzkintuWE” o la produzione indigenista del nordamericano
Ward Churchill. In definitiva il problema resta sempre il
solito: scegliere se costruire un mondo dove i capi ci assomigliano
(perché sono del nostro stesso partito o hanno il colore
della nostra stessa pelle), o immaginarsi un mondo senza servi
né padroni. Come da sempre sostengono gli anarchici;
come da sempre sanno gli Hazda della Tanzania, i !Kung del
Kalahari e gli Ache del Paraguay.
Stefano Boni
Alberto Prunetti
Gli autori:
Stefano Boni, ricercatore (discipline demoetnoantropologiche)
presso l’Università di Modena e Reggio Emilia
dove insegna antropologia sociale e antropologia politica.
Ha pubblicato Le strutture della disuguaglianza (Franco Angeli,
2003). Alberto Prunetti è redattore editoriale e traduttore
freelance per le edizioni Contrasto e Nuovi Equilibri. Nel
2003 ha pubblicato un’opera di narrativa (Potassa, Nuovi
Equilibri).
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